David Nott, Don Mosè, Ileana Boneschi. A caccia di umanità per un tempo che non ne mostra di benevolente

Ho rintracciato in una sorta di storytelling del tempo attuale tre esemplificazioni di ciò che intendo per riparare i viventi, David Nott, don Mosè, Ileana Boneschi.

David Nott, Don Mosè, Ileana Boneschi.

Sono scelte individuali, direte. Certo. Ma sono scelte che fanno pensare, mettono l’accento sulla disumanizzazione del globalizzare anche il giardino di casa tua.

Vi ricordate quando, da bambine/i, vi si chiedeva “Cosa vuoi fare da grande!?”. E tutti a rispondere “Io, il chirurgo, io la dottoressa, io il missionario, io il medico missionario, io l’ingegnere, io l’operaio…”.

Ora non so cosa rispondono i bambini e le bambine in questo nuovo medioevo 2.0 o 4.0.

Se lo chiedessero oggi a me, alla veneranda età di 60 anni, risponderei “Vorrei tanto riparare i viventi”. Credo di averlo già scritto anche altrove.

Ho il vizio o l’abitudine di raccogliere in cartelle elettroniche o in cartaceo articoli che mi suggeriscono elucubrazioni, emozioni e speranze, si anche quelle.

Ho rintracciato in una sorta di storytelling del tempo attuale tre esemplificazioni di ciò che intendo per riparare i viventi, David Nott, don Mosè, Ileana Boneschi.

David Nott ad Aleppo e non solo via Skype.

Pictures: Sheena Ariyapala/DFID

Ad Aleppo chi ne ha avuto bisogno (ahimè ancora oggi, Palmira, Mosul e quanti ancora se ne aggiungeranno di luoghi ingiuriati dalle guerre!), durante l’assedio della jihad isiseggiante,

ha trovato un medico londinese che guidava il team medico ad operare su corpi martoriati da qualunque strumento di morte sia stato costruito nella galassia delle armi.

Quel medico si chiama David Nott e quando decise di fare il medico chirurgo… non pensava di poter essere d’aiuto anche a migliaia di chilometri di distanza.

Si, perché lui ha operato attraverso Skype.

Lui non solo si sposta per tre mesi all’anno in zone di guerra, ma anche da Londra riesce a direzionare con precisione il bisturi dei medici siriani.

Su YouTube ci sono i video di David Nott mentre opera “a distanza”.

È l’estate del 2016.

Davanti allo schermo via Skype il dottor Nott ha un viso colpito al mento da una scheggia e le mani inesperte di suoi colleghi, lì ad Aleppo, che aspettano di essere guidati per intervenire.

E lui assiste ogni mossa, per oltre otto ore, fino all’ultimo punto di sutura.

Lo studio del dottore David Nott è in un quartiere ricco di Londra, ma la luminosità degli ambienti è schermata dalle tapparelle abbassate, quasi a ricordare costantemente l’habitat che questo medico vive quando per tre mesi si sposta in zone di guerra per vivere la sua professione medica accanto a chi non ha niente.

Lì si trova con chi non ha, magari, neanche la vita che può scivolargli via, quando dal cielo gli piovono addosso le terribili bombe sporche, e si, già le bombe non sono pulite, ma queste sono costruite come piccoli barili barrelbomb, di tritolo e chiodi per esacerbare il danno.

La guerra sporca portata a casa.

Sono sempre di meno i medici ad Aleppo, perché se in una guerra normale, classica, ci sarebbe un minimo di regole, come non infierire su ospedali e su chi porta soccorso, nelle guerre del medioevo 2.0 non esiste neanche questo basilare principio.

La logica infatti è quella di massimizzare il danno al nemico non permettendogli neanche di farsi salvare, come tentativo estremo dopo essere stato colpito.

 

Si dice che ci siano bombardamenti mirati su ospedali e per fare uscire fuori i mezzi di soccorso in modo da colpire con più efficacia impedendo che si presti soccorso ulteriore. E quindi giù su ospedali, medici e chiunque della catena sanitaria sia nei dintorni.

I prodromi dell’esperienza di David Nott.

Nel ’93, David Nott fece esperienza a Sarajevo, con Medici senza frontiere. Anche lì i medici sono stati presi di mira in maniera deliberata, in modo da costringere la popolazione ad arrendersi.

È da quella esperienza riscontrata di “guerra sporca” che Geneva call, una ong, ebbe l’imput di creare, nel 2015, una app per insegnare ai jihadisti ciò che prevede il diritto umanitario.

Se è vero che l’inferno è lastricato di buone intenzioni, si appalesa qui perché nessuno allora dell’Organizzazione pensò che magari i suggerimenti, sotto forma di quiz a tema, potessero finire per aiutare i cosiddetti ribelli a falcidiare i civili con una migliore ratio!

Una domanda per tutte: “Scopri che l’ospedale X sta curando nemici, che fai? Gli spari sopra o lo eviti!?”.

La risposta è stata spesso il double tap, il doppio colpo: prima si sgancia su un bersaglio, poi si aspetta che arrivi l’ambulanza per sbarazzarsi del personale sanitario.

Dicevamo che ad Aleppo sono pochissimi i medici chirurghi. Chi è morto, chi in galera, chi non ha resistito ed è andato via.

 

Nella città ostaggio, David Nott è rimasto anche da solo ad operare per 12 ore e più al giorno. Cercando anche di passare gli insegnamenti chirurgici ai colleghi giovani. Negli ospedali improvvisati anche in case private e segreti, soprattutto segreti.

Nott è partito per missioni di tre mesi, in una ventina di Paesi, man mano che si aprivano nuovi teatri di guerra, dall’Afghanistan alla Sierra Leone, da Haiti al Nepal.

Le tappe a ricostruire ciò che le guerre distruggono.

Nel 2013, è stata una delle volte, quando l’Isis controllava in modo capillare il territorio, con il rischio che se avessero scoperto che era occidentale, l’avrebbero rapito.

O ancora quando Nott riuscì a far breccia tra i russi per aprire una tregua e un cordone umanitario, grazie anche alla bimba Bana al-Abed, di sette anni (ve la ricordate?) che ha twittato, a mo’ di diario, scene di vita quotidiana sotto l’assedio. Erdogan allora si mosse a pietà e intercedette con Mosca per bloccare i bombardamenti.

La conclusione migliore per questa storia la lascio a Staglianò grazie al quale ho conosciuto questa esperienza umana.

“E lui non ha l’ambizione di togliere i peccati del mondo. Solo quella, largamente alla sua portata, di contribuire a ripararne le conseguenze”.

Don Mosè e la sua Arca moderna.

Quest’altra storia ci riporta in Italia, nel 2004. C’è un sacerdote eritreo, don Mosè, padre Mussie Zerai (Mussie in lingua tigrina vuol dire Mosè). E assiste i rifugiati del suo Paese.

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Riceve telefonate in ogni momento, quando un barcone in panne nel Mediterraneo manda un SOS, il suo telefono squilla.

Contatta chi lo ha chiamato, appunta le coordinate e invia il messaggio alla Guardia costiera italiana.

Certo si imbatte nella diffidenza di chi magari ancora non conosce i dettagli, ma non demorde e sprona all’aiuto.

Il suo numero ormai ce l’hanno tutti i migranti per mare, che non facciano gite da diporto.

Un’ancora di salvezza 2.0.

Il cellulare di don Mosè ce l’hanno anche quei fuggiaschi caduti nelle mani o lasciati nelle mani dei carcerieri libici, rinchiusi nelle carceri egiziane, compattati nei campi profughi sudanesi, rapiti per riscatto nelle prigioni dei predoni del deserto.

Lo chiamano anche da oriente, e magari sono profughi eritrei bloccati nel transito verso l’Australia.

Un libro, scritto a due mani con il giornalista Giuseppe Carrisi, Padre Mosè (Giunti, pp. 220, euro 16) racconta la sua mission.

“Senza genitori, don Mosè, è ad Asmara, durante la lotta d’indipendenza contro l’Etiopia, quando arriva in Italia è un profugo, minorenne e solo; nel 2015 è candidato al Nobel per la Pace e diventa famoso e tra le cento persone più influenti al mondo nel 2016, secondo il Time”.

Le proposte di buon senso di don Mosè sui migranti.

Ha partecipato nel 2016 su invito al vertice Onu per l’emergenza migranti. E le sue proposte hanno acume e sensibilità umane al massimo grado, in una ottica di umanesimo concreto.

Credo si possa concordare sul primo assunto: “Chi scappa per pericolo di guerra o di fame non si fermerà davanti a nessun muro”.

Niente da eccepire sul secondo: “Bisogna creare condizioni di sopravvivenza nei posti da cui si scappa”.

La responsabilità di noi che non siamo loro, oggi, e che potremmo trovarci dall’altra parte in men che non si dica, sta tutta nel terzo assunto.

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E investire risorse nelle nazioni di transito. Si sottolinea poi la necessità di aprire corridoi umanitari per i casi più vulnerabili, che richiedono protezione internazionale, perché i regimi perseguitano anche oltre frontiera”.

E poi l’intervistato aggiunge una considerazione che fa pensare: chi scappa per mancanza di alternative si fermerebbe volentieri appena al di là del confine, vicino casa, se solo avesse una chance di vita dignitosa, anziché l’inferno dei campi profughi.

Viene spontaneo rispondersi, “Allora noi che allestiamo campi profughi anche lì, a casa loro,  non vogliamo che restino e, tutto sommato, non vogliamo il problema!”.

Dalla Eritrea all’Italia.

Il padre di Mussie, urbanista dell’imperatore Hailé Selassié, quando lui ha 4 anni nel 1979, viene arrestato dai militari di Menghistu, al colpo di stato cui seguì una violenta persecuzione. Il padre riesce a uscire dal carcere su pagamento e porta via all’estero la moglie, mentre i cinque figli rimangono con la nonna.

Alla caduta di Menghistu, ha 17 anni ed espatria. Ottiene un visto per l’Italia, siamo nel 1992.

Qui, a Roma, presso il centro rifugiati dei gesuiti trova riparo. Aiuta un religioso inglese che aiuta i minori non accompagnati a non finire in strada. Si arrangia con lavori al mercato ma è comunque un clandestino.

Quando nel 1996 c’è la prima strage di profughi nel Mediterraneo, Mussie Zerai comincia a darsi da fare in modo consapevole, allestendo un rifugio dormitorio per profughi eritrei in fuga dalla nuova dittatura di Afewerki: un centinaio d’arrivi al mese, che aiuta sul piano burocratico, sanitario, lavorativo.

Il contatto con l’umanità dolente lo avvicina di più all’idea di farsi prete, su modello degli Scalabriniani, che si dedicano soprattutto ai migranti. Undici anni dopo il suo arrivo in Italia, ottiene il permesso di soggiorno. Fonda l’associazione Habeshia: volontari che affrontano le sue stesse battaglie. Viene ordinato sacerdote. Intanto è sempre in strada tra i dimenticati della terra.

Traffici umani, tra politiche nazionali e internazionali.

A seguito dei reportage di Gabriele Del Grande sulla Libia, interessato dal blogger a tradurre le storie di alcuni eritrei incarcerati a Misurata, riesce a infiltrare un cellulare nel carcere libico, e i profughi eritrei da lì gli mandano immagini, scattate di nascosto, di detenuti martoriati.

Siamo nel periodo di governo Berlusconi, 2003, quando Gheddafi prendeva milioni di euro perché trattenesse i clandestini, senza alcun vincolo, non sia mai, di rispetto dei diritti umani.

Quei prigionieri avevano scritto il mio numero di cellulare sulle pareti delle celle e negli anni successivi continuarono a chiamarmi”.

Grazie a quel cellulare viene alla luce anche la tratta degli schiavi sulla rotta del deserto del Sinai, ormai alternativa per l’Europa dopo gli accordi ostruttivi con Gheddafi della via libica.

Giovani rapiti e espiantati di organi, se non possono pagarsi il riscatto, in camper attrezzati a camere operatorie itineranti. “Così più di tremila ragazzi sono scomparsi”.

Quella rotta oggi è chiusa, ma si è spostata da qualche altra parte (a sud del confine sahariano della Libia o dell’Algeria!?).

Una testimonianza vivida della tratta operata dai beduini nel deserto del Sinai la fornisce Alganesh Fessaha, eritrea che vive da 40 anni in Italia e in prima fila a sostegno dei profughi africani e nella lotta contro il traffico di esseri umani.

Fondatrice e presidente della Ong Ghandi ha salvato negli anni scorsi circa 750 persone finite nelle mani dei trafficanti lungo la rotta del Sinai.

Ora quella rotta è stata chiusa dal muro elettronico alla frontiera di Israele, da un lato e dal pugno forte del presidente egiziano Al Sisi contro il terrorismo del Sinai, dall’altro.

E se proprio volete leggerne di più sugli orrori della tratta dei migranti, suggerisco ”Morte nel silenzio del deserto” di Furio Colombo, un articolo del dicembre 2010.

È un pugno nello stomaco.  A volte per svegliarsi dalle farneticazioni delle destre e sinistre-destre riunite, in materia di migranti, è necessario.    

Ileana Boneschi: l’ostetrica e le donne, corpo di battaglia.

Questa è l’ultima storia nell’ambito del nostro storytelling in tempi di “guerra e pace” per riparare i viventi.

Ileana Boneschi, una giovane donna di circa 30 anni, porta a compimento  la nascita di bambini in zone di guerra, nella Ong Medici Senza Frontiere.

È ostetrica. Per lei il leitmotiv aiutiamoli a casa loro furbesco dello stare in pantofole a casa propria non ha avuto attrattiva. Infatti è dentro la Ong per aiutare veramente a casa loro i migranti.

Pensare ad una gravidanza in questi luoghi fa venire un po’ i crampi a Quelli che… “pensano a far figli mentre muoiono di fame!”.

Condizioni assurde per partorire, condizioni estreme per portare avanti una gravidanza sotto le bombe, in situazioni di violenza quotidiana, di crudeltà di ogni natura.

Leggendo la storia di Ileana che racconta dei mille pericoli per una donna incinta in zona di guerra, mi ricordo di mia madre che raccontava di storie vicine sotto i bombardamenti dell’ultima guerra e delle condizioni di indigenza delle donne, dei parti nelle campagne, dove capitava e dei mille sacrifici per fare nascere una nuova generazione lontana dalla guerra e dalla sua paura.

E guardo quello che stiamo distruggendo per farne risorgere mille di guerre, micromondiali, su tutto il pianeta.

Una nascita, un figlio nuovo è una speranza in un mondo diverso, per chi fugge da carestie e bombe, isis neri e bombe che brillano di fosforo o di chiodi nell’aria.

È anche un ripetere ciò che si è visto fare da madri e nonne, certamente, se non ci sono altri modelli culturali, se manca la pace per poter pensare ad un futuro di qualsivoglia natura.

Intanto c’è l’arte di arrangiarsi per tagliare il cordone ombelicale, con pezzi di vetro, di lamiera, con il tetano che ti alita accanto se non trovi un modo per disinfettare le ferite.

Dalle scarpette all’impegno civile.

Ileana Boneschi passa dalla danza all’impegno per restituire il debito nei confronti della vita: “da una parte io, più che fortunata, dall’altra, gente che non aveva niente, nemmeno mezza delle fortune che avevo io, ogni giorno”.

L’unica strada per restituire era l’azione. Un impatto immediato, concreto.

Fare il medico, il chirurgo di guerra, ma non passati i test a medicina per poco, si lancia in ostetricia e li supera.

Poi la laurea, il volontariato in Kenya, la professionalizzazione per essere capace di affrontare la sfida in Africa, raggiungere i requisiti per l’application per entrare in Medici Senza Frontiere, che diventa realtà nel 2013.

Dalla missione mancata in Myanmar per problemi di sicurezza a quella in Sud Sudan per ritrovarsi nel centro di uno spostamento della linea del fuoco che si stava avvicinando all’ospedale di Nasir. Piano di evacuazione e direzione Etiopia, attraverso il fiume. L’ospedale fu interamente distrutto e vandalizzato nella logica del fare terra bruciata.

Le emergenze della cura.

La gestione dello stress è personale, ma quella della sicurezza nella Ong è affidata ad altri, ovviamente, così ci si può occupare della cura dei pazienti.

La prima emergenza è la malnutrizione. Cui si cerca di ovviare con il plumpynut, il cibo terapeutico che pesa moltissimo. Ci vogliono più voli e quando le piogge rendono inutilizzabili le piste diventa assai complicato il rifornimento.

L’allestimento di sale operatorie è la seconda cosa fondamentale per eventuali tagli cesarei. E le trasfusioni quelle sono un terno all’otto, per le malattie sessualmente trasmissibili.

Voglio fare un’esperienza…

L’esperienza più grande in Sud Sudan, a Bentiu, in un campo per 110mila rifugiati sotto la protezione ONU. ”Qui Msf ha un grande ospedale con una piccola sala operatoria“. La logica della Ong mira a coinvolgere e formare, dunque, persone del luogo per lo staff.

Il Sud Sudan come altri paesi di guerra vede lo stupro come arma di battaglia. E i figli, anche i figli della violenza subita, nascono perché non ci sono altri modelli da seguire se non quello che hanno fatto le madri e le nonne.

Se penso al Sud Sudan, in quel contesto le cose semplicemente succedono alle persone, soprattutto alle donne, conclude Ileana Boneschi. A loro succede anche di partorire nelle paludi, un parto in acqua è un po’ diverso  da come lo intendiamo noi“.

Video

David Nott, a special recognition

Ileana Boneschi, maternitè

Profughi eritrei nel Sinai

intervista a don Mosé

Fonti

Padre Mosé

Patrono dei migranti

Gabriele Del Grande

Speranza ultima, don Mosé

Intervista a David Nott

Fondazione David Nott

“Voce contro” su Aleppo

Ileana Boneschi, ostetrica di guerra

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