“Memorie dalla casa dei morti” – Dostoevskij e i lavori forzati

Memorie dalla casa dei morti è l’opera in cui F. Dostoevskij descrive i suoi anni passati ai lavori forzati, in Siberia, ma contiene in sé il nucleo tematico di tutta l’opera successiva dello scrittore.

Che cosa sono le Memorie dalla casa dei morti? Sono, come dice il libro, memorie, ma prima di tutto sono un romanzo, e anche, se vogliamo, un saggio divulgativo sulla vita nei reclusori siberiani di epoca zarista.
Il romanzo si inserisce pienamente nel percorso letterario dello scrittore, perché in esso troviamo molti temi che Dostoevskij riproporrà, ampliandoli, nella sua produzione successiva: già solo lo sfondo criminale lo collega ai tanti delitti dei suoi grandi romanzi.

Tuttavia quest’opera non è solo un romanzo, ma anche un libro autobiografico, benché le memorie del titolo siano quelle di Aleksandr Petrovič, che vengono ritrovate dopo la sua morte al confino (tipico espediente romanzesco!). In questo senso il libro si colloca all’interno di una tradizione memorialistica a sfondo carcerario che ha tra i suoi massimi esponenti Silvio Pellico e Primo Levi.
In effetti tra Se questo è un uomo di Levi e le Memorie ci sono troppi punti di contatto, a livello di struttura e di contenuto, per non pensare che l’autore italiano si sia ispirato al russo.

Ma prima di tutto occorre rispondere a una domanda: in che modo la vita dei reclusi in un campo di prigionia siberiano può avere a che fare con quella di uno scrittore affermato?

Fëdor Dostoevskij venne arrestato nel 1849 per le sue relazioni con i membri del circolo nichilista pietroburghese di Petraševskij (l’unico suo legame con i membri del circolo si riduceva alla lettura ad alta voce della lettera di un noto critico letterario, Vissarion Belinskij, allo scrittore Gogol’). Per questo motivo, dopo aver passato dei mesi in carcere, fu condannato a morte e soltanto sul patibolo la sua pena fu commutata in quattro anni di lavori forzati in Siberia.
L’esperienza del patibolo e quella della deportazione segneranno profondamente l’animo di Dostoevskij, che ne tornerà a parlare in tutti i romanzi successivi al suo ritorno nella capitale.

Arrivato a Omsk, città siberiana dove si trovava il reclusorio, lo scrittore si vide costretto a condividere non solo il lavoro, ma anche il sonno, il bagno e tutti i momenti più intimi con gente lontanissima da lui per estrazione sociale, per preparazione intellettuale e per rapporti con la giustizia: ogni giorno per quattro anni tra gente del contado o delle steppe arrestata per omicidio o furto.

È questo l’argomento delle Memorie dalla casa dei morti, morta perché lì l’uomo è svilito, costretto alle catene e a lavori inutili e privato di qualsiasi aspirazione.
In realtà, leggendo le pagine del romanzo, ci accorgiamo che non è proprio così, che la scintilla dell’umanità è salvaguardata, nonostante le punizioni corporali e le condizioni igieniche meno che precarie: se l’ebreo Isaj Fomič era esentato dal lavoro nel suo giorno di riposo, il sabato, e se ai detenuti era concesso di organizzare una rappresentazione teatrale, e se infine i reclusi potevano festeggiare il Natale e dovevano onorare la quaresima e la Pasqua andando a messa e non lavorando, allora è chiaro che i carcerieri, e più in generale lo Stato, riconosceva l’uomo nel condannato, il bisogno di spiritualità anche negli esclusi dalla società.

Nel capitolo V, «stagione estiva», Dostoevskij ci descrive la premura con cui tutti i deportati si inginocchiavano a pregare e spendevano le loro poche monete per accendere una candela, pensando «sono anch’io un uomo».
Qui torna utile il paragone con Primo Levi: nel lager nazista non si voleva punire, seppure duramente, un reato (e quale reato potevano aver commesso le vittime del nazismo?); quello che si cercava era l’uccisione dell’umanità, la riduzione dell’uomo in semplice bestia, che o periva o veniva torturata da una sopravvivenza fatta di lavoro sfiancante, vestiti inadeguati e scarsa nutrizione. È per questo che, se i detenuti del reclusorio di Omsk potevano avere sempre l’aspirazione alla libertà e sperare continuamente in un mutamento di sorte (parole dello stesso Dostoevskij), organizzare fughe e contare i giorni trascorsi rinchiusi, Levi ci dice chiaramente che l’uomo del lager smetteva di pensare al passato o ai suoi cari nelle loro case, toglieva subito dal cervello ogni speranza di liberazione, più che altro per non morire – letteralmente morire – straziato dalla nostalgia e dal senso di ingiustizia e impotenza. Tale era la situazione anche nei GULAG staliniani.

Ovviamente questo non significa che la vita nel reclusorio fosse idilliaca per Dostoevskij e gli altri forzati: ci sono pagine di vera critica sociale nelle Memorie, in particolare quelle dedicate alla descrizione dell’infermeria e delle punizioni corporali, reputate dallo scrittore aberranti, perché dare a un uomo la possibilità di esercitare una tirannia corporale su un altro uomo di fronte all’indifferenza o all’accettazione della società è il primo sintomo della decadenza della società stessa, della sua prossima rovina o del suo collasso.

Le opere di Levi e Dostoevskij, come accennato prima, non sono vicine solo per i temi trattati, ma anche nella struttura. Entrambe sono divise per capitoli tematici, ognuno dei quali tratta un particolare aspetto della vita nel reclusorio, come l’arrivo, il bagno, l’infermeria, il lavoro. Entrambi, poi, evocano spesso immagini d’inferno dantesco, per esempio nella descrizione dostoevskiana del bagno, dove tutti i detenuti urlano, si battono con i rami di betulla, in un ambiente sudicio e appiccicoso.

Entrambi gli scrittori, poi, si concentrano sulla così detta “zona grigia”, composta da quegli uomini che trovano un compromesso con la propria coscienza e collaborano in maniera più o meno diretta col potere: per Levi sono i guardiani dei campi e dei lavori, per Dostoevskij i carnefici «coatti», cioè altri reclusi che per qualche privilegio si occupano delle punizioni corporali.

Ma le Memorie dalla casa dei morti sono un fucina di temi per lo stesso Dostoevskij, che ricaverà dalla sua esperienza tantissimo e la riproporrà con maggior vigore filosofico e psicologico nelle altre sue opere.
In particolare, spiccano le affinità tra questa opera e il grande romanzo Delitto e castigo, uscito appena qualche anno dopo: anche Raskol’nikov, protagonista di quest’ultimo romanzo, sperimenterà il lavoro forzato e insieme la rinascita. In questo senso è ancora il capitolo V ad aprirci la via alla riflessione.
L’ambientazione spaziale e temporale è la stessa dell’ultimo capitolo di Delitto e castigo: primavera, sesta settimana di quaresima, scena contemplativa sulla riva del fiume Irtyš, luogo simbolo della libertà «per il fatto che da essa è visibile il creato». Sia Aleksandr Petrovič/Dostoevskij sia Raskol’nikov stanno attraversando un periodo di transizione, che porterà entrambi a riconoscere l’umanità in se stessi e la loro vicinanza col popolo.
Proprio il percorso da un rigetto verso una riscoperta spirituale della vita (vorrei dire verso la rivelazione del senso della vita) è quello che fonde i protagonisti delle due opere.

Si potrebbero dire ancora mille cose su questo libro così ricco di temi e di riflessioni, per esempio che il capitolo «il racconto di Akulka» è una vera metanarrazione, una storia nella storia totalmente autonoma dal contesto, ma la cosa migliore è consigliare di leggerlo, magari proprio a chi non ha mai letto niente di Dostoevskij, come primo testo per accostarsi al pensiero di questo grandissimo scrittore.

Maria Chiara DAgostino

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1 thought on ““Memorie dalla casa dei morti” – Dostoevskij e i lavori forzati

  1. La presentazione di questo grande scrittore e delle sue opere è veramente stimolante, ci spinge ad una lettura più profonda e attenta.

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