Il ruolo della donna nelle criminalità organizzate: tra silenzio e potere!

Nella maggior parte dei casi, quando parliamo di criminalità organizzata, identifichiamo questa come un “mondo maschile”, o meglio “maschilista”. Ma le donne che ruolo ricoprono nelle famiglie mafiose?

Il compito di madri, mogli, sorelle, figlie è stato per anni ignorato, anche dalla stessa magistratura, in quanto era luogo comune pensare che queste erano ignare del “lavoro” che gli uomini di casa svolgevano e spesso erano considerate vittime del sistema, costrette ad “ammaritarsi” per scopi familiari.

Nello stesso nucleo familiare la donna ha ricoperto, e ancora oggi ricopre, una posizione ambigua: è rispettata, in quanto legata a uomini influenti nella società, ma è ritenuta incapace quasi “per natura” di mantenere segreti, per questo motivo da sempre è stata esclusa dai tavoli delle riunioni, nonostante le decisioni importanti venivano prese a casa loro. Come ha dichiarato il collaboratore di giustizia Gioacchino Pennino: “Cosa Nostra ha considerato sempre il soggetto femminile come un soggetto non virile, non duro di carattere”. La sua pericolosità, classificata come manifesta inferiorità, è quella di “provare sentimenti”.

Ma, come in tutti i campi sociali e culturali, anche nel mondo di Cosa Nostra la donna si è emancipata – a partire dagli anni Novanta del secolo scorso – modificando notevolmente la sua comunicazione sulla scena pubblica. Hanno deciso di uscire allo scoperto, di uscire dal silenzio che per anni le ha rese “ombre invisibili” dei loro uomini, rendendole “immuni” da qualsiasi giudizio, sia quello pubblico che legale.

Le “donne devianti” sembrano aver così violato le regole per ben due volte: perché sono divenute criminali nonostante fossero donne e quindi capaci di utilizzare la cattiveria, e perché ovviamente sono sottoposte a giudizio e a condanna per i crimini che compiono.

Il caso eclatante, è la storia di Maria Filippa Messina: dopo l’arresto del marito, decise di prendere il suo posto alla guida dell’organizzazione mafiosa. Fu l’ideatrice della vendetta contro il clan rivale, per questo fu “la prima boss” a cui è stato inflitto il regime carcerario dell’art. 41 bis, spettante a coloro che sono considerati particolarmente pericolosi in società.

Il suo è solo un chiaro esempio di come il ruolo femminile sta cambiando anche all’interno dei clan mafiosi. In una inchiesta del 2013, si contano ben 133 donne accusate di associazione mafiosa e rinchiuse in carceri di massima sicurezza, perché ricoprivano ruoli direttivi nelle organizzazioni.

Nonostante l’ambiente criminale, in particolar modo quello mafioso, è stato ed è prettamente maschile e maschilista, le donne stanno acquistando sempre più posti autorevoli, a dispetto di qualsiasi luogo comune.

La “donna al potere” nella gestione degli intrighi mafiosi non sembra essere più un’utopia, un qualcosa di impensabile.

Isabella Insolia

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