Solo e abbandonato dallo Stato: che ne sarà di Angelo Niceta? (una storia poco conosciuta)

Il 1 giugno di quest’anno un uomo di 46 anni pubblica questo post sul suo profilo Facebook:
“Da questo momento comunico che io ho iniziato un digiuno totale che proseguirà ad oltranza. Il mio digiuno è la conseguenza dell’isolamento e dell’annientamento sociale ed economico voluto e creato scientemente da questo Stato colluso con la mafia, Stato che ha reso la mia vita e quella dei miei familiari impossibile, Stato opportunista e in malafede che finge di dimenticare quei cittadini che fanno il proprio dovere fino in fondo”.

Un mese dopo Angelo Niceta, sposato e padre di tre figli, è al 36esimo giorno di sciopero della fame e i medici che lo seguono esprimono da tempo preoccupazione per il suo stato di salute. Ma chi è quest’uomo, che esprime così tanta amarezza e sconforto nei confronti delle istituzioni?

Anche se a livello nazionale la sua storia non è molto conosciuta (si è preferito concentrarsi sulla possibile “morte dignitosa” di Totò Riina e sul rifiuto di dare i bonus bebè alla figlia Lucia) i giornali della Sicilia come PalermoToday e RepubblicaPalermo non parlano d’altro: Angelo proviene da una facoltosa famiglia di imprenditori palermitani (il cognome Niceta, come riporta l’attore e politico Giulio Cavalli nel suo sito, è uno di quelli « che conta ») e nel dicembre del 2015 si è presentato dai magistrati per denunciare i rapporti tra i suoi familiari e alcuni membri di spicco della mafia tra cui Bernardo Provenzano, i fratelli Carlo, Giuseppe e Filippo Guttadauro e Matteo Messina Denaro.

Angelo, nella sua testimonianza, parla in particolare dell’altro «ramo di famiglia», ossia dello zio Mario, morto del 2013, e dei cugini Massimo, Piero e Olimpia; Mario Vittorio Massimo Niceta, infatti, era uno dei più noti imprenditori di Palermo che a partire dagli anni Cinquanta ha costruito la sua fortuna sul settore dell’abbigliamento con il suo negozio di tessuti in via Roma. Un vero e proprio impero crollato quattro anni fa, quando la Finanza ha sequestrato all’allora 71enne beni, immobili e attività commerciali per un valore complessivo di 50 milioni di euro. A quel punto, come riporta l’articolo di PalermoToday del 6 dicembre 2013, sono emersi i rapporti «di reciproco vantaggio» tra Mario Niceta e i fratelli Guttadauro che hanno permesso all’imprenditore «di espandersi sul territorio palermitano e trapanese». Sospetti che poi diventeranno conferme quando Angelo si presenta in Procura.

L’uomo dichiara di essere al corrente di tali rapporti e che proprio a causa di ciò suo padre, Onofrio, decise di rompere con il fratello. Tuttavia, nonostante la sua coraggiosa decisione e i rischi di possibili ritorsioni nei suoi confronti, all’uomo non è stato riconosciuto lo status di “testimone di giustizia”, venendo invece considerato un “collaboratore di giustizia”. Tale stato giuridico, conferito ai cosiddetti pentiti, ha un significato completamente diverso da quello di testimone di giustizia, che riguarda cittadini incensurati che decidono di loro volontà di collaborare con lo Stato (che, a volta, ne dovrebbe garantire la protezione). Oltre al danno, quindi, la beffa: sebbene, al contrario dei suoi parenti, non abbia mai avuto alcun legame con la mafia ma abbia piuttosto deciso di collaborare con la giustizia, ora quella stessa giustizia gli ha voltato le spalle, lasciandolo senza protezione e contrassegnandolo con uno status che non lo rappresenta.

Nelle ultime settimane molti si sono mobilitati per aiutare Angelo: sulla piattaforma Change.org il Comitato per Angelo Niceta ha lanciato una petizione a suo favore, raccogliendo più di 25.000 firme e su Facebook non mancano i messaggi di sostegno e di supporto all’uomo. Eppure, nonostante l’incontro con il Prefetto di Palermo, quello con il sindaco della città Leoluca Orlando e l’interrogazione parlamentare presentata a fine giugno, nulla si è mosso.

Resta quindi da chiedersi: è necessaria un’altra morte per far sì che i propri diritti vengano rispettati? È necessario che un uomo innocente e incensurato sia costretto a nascondersi lasciando che i suoi carnefici continuino i loro affari? Oppure la sua vita non conta poi così tanto?

Nell’intervista fatta da Left e riportata sul sito GiulioCavalli.it Angelo si è ormai rassegnato:
«Finché parli dei cattivi sono tutti contenti ma quando parli di accordi tra la criminalità organizzata, la borghesia e il tribunale tutto diventa un tabù. Ormai vieni ammazzato non più con le pistole ma socialmente ed economicamente. Agisce sui figli e sui famigliari. (…) Loro sanno dove colpire. Io sono isolato, senza soldi e senza lavoro. Eccomi qui.»

Sarà questo il suo destino?

Elisa Ceccon

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