Tolleranza e Multietnicità. È davvero così complicato farli andare d’accordo?

Possiamo coniugare Tolleranza e Progresso, in modo nuovo?
A questo punto, ci chiediamo se un margine nuovo è ricavabile al fine di ridare credibilità ad un “progresso” siffatto e a valori etici così bistrattati come “accoglienza, tolleranza e condivisione”.

Assai contraddittoria, come del resto è proprio delle “voci di dentro”, la serie di interpretazioni emozionali del cosiddetto “mondo globale”.

  • Delle identità confuse in un mondo babelico?

  • Un rabberciato nuovo melting pot, (E Pluribus UnumOut of Many, One), di americana memoria, con conseguente sacro terrore di trasferire nel “nostro Eldorado” una serie di comportamenti aggressivi e intolleranti (quasi non ci bastassero i nostri!)?

Oppure…

  • Un mondo tutto Armonia che sembra avvicinare l’antica Arcadia al rifiorente New Age?

Più semplicemente, forse, un mondo in cui teoricamente il prodotto “informazione” può essere fruito ed agito da tutti, con conseguente (?) innalzamento del livello di comunicazione tra i singoli privati e/o sicuro incremento, questo sì (sigh!), dello scambio di qualsiasi genere di “prodotto”, culturale o commerciale, tra i grandi enti/ società.

Globalizzazione è una Rete?

Il risultato della globalizzazione è un’enorme rete che interseca mondi sconosciuti gli uni agli altri, i quali improvvisamente si ritrovano vicini, pur a milioni di Km di distanza.

Il rischio è l’omologazione più totale (e, per contro, la fobia verso le “differenze”) che viaggia assai velocemente, come modello invasivo, più di quanto lo stesso abbia fatto attraverso i canali mediatici classici (Tv, giornali, radio).

La speranza è l’avvicinamento delle culture e la coabitazione di “credi” (religiosi e culturali) diversificati, nello spirito di co-vicinanza, e, dunque di “tolleranza” dello spazio altrui.

Se questo è il panorama del mondo globale, nel nostro attuale futuro (Ossimoro? Non direi, perché è già qui, nel reale!), in rete, proviamo a sottolineare una contraddizione.

Contraddizioni della Rete globale.

La rete sembra avvicinarci e siamo tutti contenti di essere contigui, ma, sostanzialmente consapevoli della distanza, riusciamo, proprio per questo, a sopportarci, a non sentirci invasi.

Quando, però, la vicinanza diventa reale e ci mette a confronto con altri individui di razza, colore e cultura diversa, quando la rete non è più virtuale, ma è la rete, a maglie più fitte, della comunità che abitiamo, ecco che cominciano i dolori!

Si parla da più versanti, laici e cattolici, di tolleranza e di pluralismo culturale, di accoglienza e di condivisione“.

Le avvisaglie sono partite da lontano.

Da alcuni segnali, già negli anni Novanta, abbiamo rilevato il livello di soglia delle tensioni che si stavano scatenando: a Milano, città metropolitana (che) “nasconde nelle sue pieghe più profonde sacche di vizio aberrante”, dove, però, il “dagli all’untore”, nei fatti degli omicidi che accadevano, non esisteva tra le forze dell’ordine.

C’era l’applicazione della legge con fermezza, sì, ma con umanità. Scriveva Dino Buzzati nella sua “Nera”: “Non parolacce, non volgarità, non cattiverie inutili, non disprezzo. Nessun gusto di “dagli all’untore”, nessuno spirito di accanimento, se non contro i lenoni sfruttatori” (La nera di Dino Buzzati, di D. Buzzati).

Sulla scena nazionale era come se ci si dibattesse ancora con un mondo del crimine dal volto umano, beninteso non è che il crimine sia giustificabile, ma le ragioni del crimine attenevano all’umanità. Oggi la barbarie ha preso il sopravvento, in ogni senso.

Sulla scena internazionale, invece erano già presenti avvisaglie più perturbanti: l’ex Jugoslavia e le lotte di potere intransigente tra etnie coabitanti fino a qualche tempo prima.

Si profilavano già i prodromi della politica cinese e di quella turca, della “mano forte” verso la dissidenza; continuavano i bagni di sangue nella corolla dei paesi africani; cominciavano a spingere più ridondanti gli estremismi islamici, da una parte e i puritanesimi all’americana con i pruriti risorgenti che invocavano “l’Uomo Forte”, dall’altra.

Erano già tutti segni concreti di una coabitazione difficile, fatta di odi e di rivalsa, in cui ogni parte sembrava accusare l’altra di “non tolleranza”.

Tolleranza e In-tolleranza, tra privato e pubblico.

In fondo, di “tolleranza” se ne parla a fauci piene, ma il sangue monta subito agli occhi, se le proprie opinioni sono messe in ridicolo, e ci viene la voglia quasi di uccidere l’interlocutore “intollerante”!

Allora tentiamo di fare chiarezza, andando in retrospettiva sull’evoluzione storica della parola “tolleranza”, giacché il continuo passaggio del termine dal terreno privato a quello della politica ha anch’esso confuso le acque.

Tolleranza, come nasce.

Cominciamo ad affermare che il concetto di “tolleranza” è stato il portato essenziale dell’individualismo liberale per fondare uno Stato laico, non confessionale.

Locke e Voltaire chiedevano tolleranza ai rispettivi governi, ossia che non imponessero nessuna religione ai loro sudditi e che permettessero anche di non professarne alcuna… La tolleranza dunque è nata come un valore laico: un antidoto allo zelo apostolico...” (cfr. F. Savater, El Pais, 1995).

A questo proposito, se proviamo a guardarci indietro, ci accorgeremo che “tolleranza, accoglienza, condivisione” sono scese a patti assai spesso con l’ortodossia cattolica e questo ha coniugato sempre un prezzo piuttosto alto per le minoranze che fossero economiche, razziali o di religione: due esempi varranno per tutti, i valdesi e le donne/ streghe!

L’incognita del Progresso.

Lo stesso termine “progresso” è tutto da rivisitare, se solo si pensa che, in suo nome, abbiamo quasi azzerato le culture degli indios della Patagonia.

Per non tacere poi della cultura degli indiani americani, colpevoli allora di impedirne l’avanzamento, per il semplice fatto che i loro insediamenti si trovavano là dove lo Yankee aveva deciso di far passare il “cavallo di ferro”! Oggi un altro cavallo di ferro yankee passerà per le terre sacre degli antenati! La storia continua a ripetersi.

E alla Nuova Frontiera americana non è bastato spazzarli via, deportarli in riserva, ma è stato necessario, perché non rimanesse spirito guerriero alcuno, svuotarli di sé e riempirli dei nuovi simboli, in tal senso bastando qualche barile di pessimo whisky, nel più pieno stile dell’O’Brien orwelliano.

Possiamo coniugare Tolleranza e Progresso, in modo nuovo?

A questo punto, ci chiediamo se un margine nuovo è ricavabile al fine di ridare credibilità ad un “progresso” siffatto e a valori etici così bistrattati come “accoglienza, tolleranza e condivisione”.

E rispondiamo, Si, nonostante tutto e non foss’altro per tutti quei singoli che, non solo ci sperano, ma agiscono concretamente per ridefinirne i contorni: parliamo dei cosiddetti “intellettualmente onesti”, di chi, insomma, vive e lascia vivere, di chi usa ancora il potere del proprio pensiero critico e di autoironia ed è capace di dire No ai nuovi imbonitori.

Certamente la “tolleranza” non può essere soltanto un comportamento personale e, perché sia una modalità attiva contro i fanatismi, è necessario che diventi un atto politico che va opportunamente modellato. Deve essere e trasformarsi in Etica.

Savater disegna in modo semplice l’etica: “L’etica è la pratica di riflettere su quello che decidiamo di fare e sui motivi per cui decidiamo di farlo”.

La base di un sistema democratico che accolga il concetto di “tolleranza” tra i suoi principi essenziali, sarà, dunque, un “diritto diseguale”, un “diritto alla differenza”, ossia un diritto comune che legittimi le differenze.

La tolleranza non si misurerà nel testa a testa assurdo per stabilire quali religioni siano più intolleranti, se Islam, Cristianità o Ebraismo, ma la partita deve spostarsi su quanta intolleranza giochino i relativi poteri politici e religiosi, che si fanno portatori di un unico Credo … Economico, che poi si ammanta di “Virtù Religiose” o viceversa…

Scriveva Fernando Savater: “Vivere in una democrazia oggi (e ancor più in futuro) equivale a coesistere con quello che non ci piace, con quello che consideriamo sbagliato e meschino, con quello che ci ripugna o che non riusciamo a comprendere (El Pais,1995, F. Savater).

Tollerare significherà pertanto fare una distinzione tra persone, da rispettare sempre, e opinioni e costumi e comportamenti, che possono, anzi devono essere, se necessario, messe in discussione, anche in modo irriverente.

Tolleranza infine va a braccetto con la curiosità intellettuale, persino verso ciò che disapproviamo; Seneca aveva il “vizio” di “passare al campo nemico, non come transfuga ma come esploratore”.

Chi siamo noi, per non provarci! Non dobbiamo entrare nei panni altrui! Non stiamo nei nostri, figurarsi ad aver una simile pretesa.

Curiosità intellettuale vuol dire, soltanto, sperimentare il nostro essere “uno, nessuno e centomila”, avendoci come specchio l’altro diverso da noi.

La comunità italiana, da Nord a Sud, isole comprese, avrebbe bisogno di andare a ripescarsi un po’ della propria storia, a ritroso, per correggere le debordanti uscite “nazionalistiche” di gruppi o codazzi, e persino istituzioni.

Un po’ di storia a ritroso non guasterebbe.

Non si tratta del semplice rinvio alla storia del migrante italiano “dalla valigia con lo spago”, poiché questo rimando spesso acuisce frustrazioni che non fanno bene certamente alla causa dell’accogliere lo straniero dell’oggi, vedendoci il se stesso che è stato straniero in terra altrui.

Ci riferiamo piuttosto alla storia che ci ha visti multietnici o multiculturali, già in quel periodo che fa ricordare l’Italia come la culla del Rinascimento.

Non fa male rinfrescare la memoria e parlare quasi di archeolingua, in un tempo di così soffuso e pervasivo tecnicismo linguistico, che finisce per atrofizzare anche l’anima e renderci dimentichi del “chi siamo realmente”.

In quel crogiuolo di razze e di lingue, quando l’Italia era al centro del Mediterraneo, sì, in pieno Rinascimento, stava già l’unità multiculturale.  L’avevamo nelle mani. Basta entrare nei nostri dialetti per rintracciare l'”unità nella diversità”, un miscuglio di fonemi europei ed orientali.

Che ne abbiamo fatto? Ne abbiamo uccisa la consapevolezza ed è cosa ben strana, se pensate che in America, alcuni studiosi di multiculturalismo guardano alle tradizioni umanistiche del Petrarca, addirittura ritenendole il fondamento della multicultural policy.

Dicono, infatti, che l’occidente nasce dall’interazione e fusione di diverse matrici culturali e religiose che si concentrano nell’Italia rinascimentale cui segue una linearità che arriva fino al multiculturalismo.

Avere spezzato quella linearità, all’interno della nostra comunità, ha frammentato la consapevolezza dell’identità personale e nazionale: non un bieco “Io senza mondo”, ma un’identità che è ethos, rispetto di sé e degli altri, su cui solo si fonda il diritto alla differenza e la volontà di condividere la propria specificità culturale con gli altri mondi possibili.

Una serie di rivoluzioni e controrivoluzioni, dalla Controriforma ad oggi, ci ha distolto dalle “arti liberali”; provvediamo per tempo a riafferrarle, prima che la dimensione globale e il tecnicismo stendano il definitivo velo dell’Oblio sulla nostra anima.

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