“Workaholism” (dipendenza dal lavoro) e la necessità di ripensare il tempo

Chi non lavora non fa l’amore, cantava un bel po’ di anni fa Adriano Celentano, rimbrottato nella canzone dalla moglie per la partecipazione ad uno sciopero ad oltranza. Tu ti metti in sciopero, beh mi ci metto pure io. Oggi, invece, pare che siamo dinnanzi al fenomeno opposto, chi lavora non fa l’amore. O meglio, chi lavora troppo resta a secco.

La boutade è utile per introdurre la misura che il Governo in Corea del Sud, si è visto costretto ad introdurre, al fine di evitare che i dipendenti svolgano eccessive ore di lavoro: il blocco dei computer. Overworking, infatti, è il fenomeno degli impiegati che svolgono turni ben al di sopra di quanto dovrebbero da contratto. In media pare che siano soprattutto i dipendenti statali (gli impiegati del Ministero della Pesca su tutti, sic.) a lavorare 2.739 ore all’anno, 1000 ore in più dei dipendenti di qualsiasi altro Paese considerato avanzato, che lavorano mediamente circa 1.763 ore. Questo eccesso di lavoro ha portato a varare tale misura, calandola dall’alto, per cercare di porre rimedio al crollo delle nascite. Si, perché i coreani in ufficio neppure si trattengono per le amanti o future papabili consorti.

È un fenomeno, in realtà, non nuovo né di certo isolato nel mondo orientale. D’altronde, è il Giappone la nazione che ha inventato la parola “karoshi”, ideologismo atto a definire il fenomeno depressivo da cui sono affette milioni di persone che lavorano eccessivamente (spesso per giorni consecutivi) che sfocia, purtroppo, molto spesso in suicidi. E, quindi, la Corea del Sud cerca di metterci una pezza come può, spegnendogli i computer, come una mamma moderna ribelle che toglie lo smartphone da mano al bambino. Ci può stare. Quello che, invece, lascia terribilmente perplessi è la reazione di quegli stessi impiegati, che, approfittando di un cavillo presente nella legge, ovvero la possibilità di derogare stabilendo di posticipare il blocco del computer, hanno letteralmente preso d’assalto gli uffici ministeriali per poter accedere all’esenzione e osservare turni di lavoro più lunghi. Cioè andatelo a dire ai furbetti del cartellino in Italia se tagliano in due dalle risate. Aldilà della faciloneria a cui si prestano le battute sugli impiegati nostrani, soprattutto nelle pubbliche amministrazioni, è un fenomeno che è in crescente aumento anche nel nostro Occidente, quello di ritmi di lavoro sempre più accelerati e frenetici, talora a fronte di ritorno sull’utile, in termini retributivi, molto meno soddisfacente rispetto al passato.

“Il workaholism”, l’essere letteralmente alcolizzati di lavoro e dal lavoro, sta invadendo la vita di tante persone anche in Occidente. Non sappiamo staccarci dal lavoro e quelle rare volte in cui ci stacchiamo, continuiamo a pensarci, a rispondere a mail o chiamate. Ma a quale prezzo? A cosa è legata questa nuova forma “normale” di dipendenza che invade le nostre vite, i nostri interessi extra lavorativi e, da ultimo, le nostre personalità, come se non sapessimo pensarci senza il nostro lavoro? Partiamo dal presupposto che il lavoro è l’estrinsecazione della persona nella società. Siamo anche ciò che facciamo. Ma non solo. Perché siamo giunti a pensare che la nostra identità e l’identità delle persone che ci circondano siano direttamente proporzionali al mestiere che facciano o, peggio, a quanto “successo” abbiano in ciò che fanno. Sarà che questa immensa corsa a chi fa di più, a chi tira più tardi la sera in ufficio a chi scala più velocemente la vetta per arrivare ai vertici, sia in realtà frutto di un disvalore che sta insinuandosi nella nostra società, in base al quale la realizzazione personale si misura in base a quanto si guadagna o al prestigio raggiunto all’interno di un certo ambito? Che conseguenze provoca, invece, non raggiungere quell’ideale di successo che ci si era prefissati o, inconsciamente, che la società ha imposto di prefissarci? Probabilmente, l’insoddisfazione, il non ritrovare un senso, come se da solo il “successo” (lo virgoletto scientemente) potesse definire il senso della nostra esistenza. Ma occupare una posizione “alta”, guadagnare tanto e acquistare cose costose è realmente ciò che può far sentire una persona compiuta e realizzata in sé, oppure è sempre espressione di quell’edonismo sociale che ci impone di apparire non solo belli, non solo bravi, non solo realizzati, ma i più belli, i più bravi, i più realizzati? A scapito, ahimè, di bruciarsi la possibilità di essere davvero chi si è e di trovare, magari, realizzazione in altro, in meno, in qualcosa di diverso e comunemente ritenuto non abbastanza. È anche più facile alla fine bypassare la scoperta di ciò che si è, per concentrarsi su ciò che si fa o si dovrebbe fare. Fare pace, invece, con l’idea che sì il lavoro è fondamentale per l’appagamento, ma non risolve ciò che siamo è un passo futuro che questa società del “terziario”, chiusa in grattacieli e in uffici dovrà fare. Tutti noi dovremmo farlo, avvicinandoci non al modello coreano o americano delle 12 ore minime di lavoro al giorno, bensì a quello scandinavo teso a ridurre con qualità le ore lavorate in modo da poter coltivare altro della propria vita e personalità. Di poter godere di un tramonto, di poter giocare con i propri bambini senza che la terribile notifica della mail riporti seduti a quella scrivania e a quel computer. Del poter praticare uno sport, coltivare un hobby, conoscere e frequentare persone. Fare l’amore. Di poter ritrovare il tempo, negli angoli di silenzio e di spazio, di poter pensare e riflettere su qualcosa di diverso dall’ultimo planning o riunione o mail. Di pensare sé stessi nel tempo e nello spazio come individui in sé completi, senza un ruolo che intervenga necessariamente a definirci, avvocati, ingegneri, economisti, operai, dirigenti.

Ho tentato di non personalizzare troppo questo articolo che, pur sento così vicino ai miei tormenti, quindi è praticamente impossibile non parlare dei miei, di dubbi. Sono, in maniera piuttosto malcelata, uno di quei soggetti che nel lavoro investe, tanto, con molta probabilità troppo, tra uscite ad ore tarde e grandi sensi di colpa nel lasciare le cose da fare anche solo un’ora prima del dovuto. Lo adduco a una personalità di base rigorosa e, in generale, alla volontà di fare sempre meglio, con più attenzione, per imparare sempre di più e crescere di più. Eppure, la sera uscendo ad ora tarda dal mio ufficio, dopo una giornata più o meno buona e dopo aver pensato ai coreani in panico perché gli hanno spento il computer e starando “iastemmando” (speriamo si siano ricordati di salvare), mi canticchio in testa i versi di una bellissima canzone, vera poesia, di Niccolò Fabi che recita così: “Successo è solo accaduto, è come un participio passato come una sfera d’argento che lungo un piano inclinato scivola”. Si il successo è talmente vacuo e incerto da scivolare dalle dita. Per concludere: “E’ poter dire solo quello che si vuole dire, è poter fare solo quello che si è scelto, è poter scegliere di smettere e di ricominciare, è poter fare solo quello che dà gusto”.

Riprendiamoci la libertà di fare quello che ci dà realmente gusto, a prescindere da ciò che ci si aspetta da noi, perché, in ultima analisi, guardandoci ad uno specchio dovremmo, giorno dopo giorno, riconoscere chi siamo nel nostro intimo non chi hanno voluto farci diventare. La scoperta del contrario genera mostri.

Annarita Lardaro

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