Alla ricerca del sindacato perduto

Come ha di recente ricordato Papa Francesco, la parola sindacato racchiude in sé un significato estremamente elevato, il cui etimo è “syn” insieme e “dike” giustizia. Fare giustizia insieme.

Rimanda con efficacia allo scopo per cui nacquero le prime formazioni sindacali, ovvero come mezzo attraverso il quale i lavoratori, stremati ed oppressi dalle prime fabbriche ottocentesche, cercavano di opporsi alle condizioni da cui erano afflitti.

Oggi la parola sindacato ha perso del tutto quell’appeal romantico e giustizialista da cui era avvolta ai suoi albori, per più semplicemente andare a diventare una sottocategoria di un partito politico. Logiche clientelari, amicizie, rapporti di potere ed interessi economici sembrano ormai esserne le caratteristiche identificative. Eppure il danno vero di questa decadenza, detto con franchezza, è solo ed esclusivamente dei lavoratori, forse in senso più onnicomprensivo dell’intera società.

Orbene, è evidente che in nessun’altra società civile, i sindacati sono così presenti nella vita politica del Paese, sedendo al tavolo di ogni trattativa che possa più o meno andare ad incidere su riorganizzazioni aziendali, esuberi, piani industriali ecc. Si pensi, a mero titolo esemplificativo, ai casi Alitalia, Ilva, Indesit, Fiat. Altrettanto vero, però, è il dato che la perdita di consenso e di potere di aggregazione da parte delle rappresentanze sindacali è un fenomeno che ormai interessa quasi tutta Europa, ad eccezione degli stati del nord Europa in cui ancora riescono ad incidere sulle politiche del welfare in maniera significativa.

In questa progressiva perdita di rappresentatività decisivo è stato il processo di integrazione europea, che ha visto le politiche sociali e lavoristiche ormai quasi totalmente decise a livello sovranazionale. E in quel di Bruxelles è di certo più complesso per il sindacato far sentire la propria voce. A ciò si aggiunga un generale venir meno del lavoro di tipo fordista, con la figura del lavoratore/operaio i cui interessi erano facilmente aggregabili intorno a variabili quali salario, orario di lavoro, ferie. E qui mi rendo conto che già abbiamo preso tutti sonno, resistete però, che il ragionamento non migliora in quanto a divertimento, ma purtroppo è necessario. A chi ha già perso conoscenza, chiedo venia.

Lo stato attuale dei giochi ci pone dinnanzi un mercato del lavoro totalmente diverso, con una prevalenza del settore terziario e con una disomogeneità sostanziale tra i vari interessi degli operatori del mercato. Decisivo, poi, è il processo di delocalizzazione, in atto da diverso tempo, che vede le imprese sempre più votate a ricercare condizioni più favorevoli per abbattere il costo legato alla manodopera e al lavoro in genere. Il tizio del call center dall’accento vagamente rumeno che a fatica cercate di capire, beh lui è simbolo dell’esternalizzazione in atto.

In questo mutato quadro, è un dato di fatto, il sindacato non ha saputo e non sta riuscendo ad abbandonare la vecchia visione di sé stesso, legato alla fabbrica e alle rivendicazioni (talvolta assurde diciamolo chiaramente senza doverci atteggiare a finti cattocomunisti) dei lavoratori, al fine di non perdere consenso. Ha perso, però, con questo atteggiamento il passo con il mondo che cambia e soprattutto non ha saputo offrire a tutta quella zona d’ombra di lavoratori giovani e “non sindacalizzati” delle tutele e una rappresentanza adeguate.

Oggi parlare ad un giovane di sindacato apparirà anacronistico come una puntata di Happy Days. In un mondo del lavoro che vede la fascia 18-35 anni o totalmente inoccupata o sottoccupata (intendendosi tutta quella categoria che percepisce retribuzioni infime a condizioni pessime), l’invito ad iscriversi ad una qualche sigla sindacale risuonerebbe come un vero e proprio sbeffeggiamento. Se non ho lavoro o ho un pessimo lavoro, sottopagato, umiliante e non adeguato soprattutto se si sono fatti studi di un certo livello, la domanda è perché dovrei iscrivermi ad una sigla sindacale.

Eppure aldilà delle obiezioni perfettamente condivisibili su quanto il sindacato si sia con il tempo piegato a logiche di potere, è altrettanto vero che per riequilibrare l’evidente disparità di condizioni lavorative e di distribuzione della ricchezza una qualche forma di intermediario sociale, ma questo lo dimostra la storia, è necessario. L’alternativa è l’anarchismo ma questa è un’altra storia.

Un sindacato forte è riuscito negli anni ’60 e ’70 a creare quel meraviglioso apparato di tutele e diritti che è lo Statuto dei lavorati, strumento ormai di molto depotenziato alla luce delle riforme, dalla Fornero al Jobs Act (ci sarebbe da fare un capitolo poi su Treu…). Negli anni poi come spesso nella italica mentalità avviene, una certa frangia di lavoratori ci ha sapientemente marciato su, ottenendo quelle che non erano più tutele bensì veri e propri ricatti e favoritismi per beneficiare di condizioni migliori per sé stessi, con evidente nocumeno per la comunità. I diritti, nulla quaestio, vanno prima ottenuti e poi meritati nel tempo. Da lì il crac del nostro sistema che non poteva reggere.

Tocca ripensarsi. Che lo si chiami sindacato, associazione, organizzazione, movimento, serve una qualche nuova forma aggregativa in grado di dare un’effettiva voce a chi di voce nel mercato del lavoro non ne ha. A chi non ne ha perché non è proprio presente o ci sta come ad una festa in cui ti dovevi “vestì” a tema e sei l’unico coglione in jeans e maglietta, mi si farà passare la metafora colorita. Per fare questo è necessario ripartire da nuove idee sul mercato del lavoro e sull’economia e, soprattutto, imbastire un nuovo dialogo basato sulla fiducia. Pensare a politiche che siano realmente inclusive e re-inclusive, perché soprattutto i “neet”, quei giovani che hanno rinunciato a studiare e lavorare, costituiscono un enorme potenziale economico che annualmente va sprecato. In Italia pare costino 36 miliardi di euro, tradotto in Pil significa che si perde il 2%.

In tale contesto, uno dei personaggi che considero più avveduti, lungimiranti e azzarderei al passo con i tempi è Marco Bentivogli, a capo di uno storico sindacato confederale come la CISL. Il segretario sostiene una visione semplice ma dal sapore rivoluzionario per un sindacato che presenta la tendenza patologica ad ancorarsi disperatamente al passato: Bentivogli propugna l’idea di un sindacato come luogo pubblico delle aspirazioni dei giovani, aperto al dialogo e lontano dai dettami ideologici storici. Condivido umilmente la sua visione. E condivido l’idea di chi non vede nella progressiva automazione del mercato del lavoro un limite, ma un’opportunità: verranno meno i lavori routinari ed alienanti, l’operaio fordista di cui sopra, per far posto ad una necessità intellettuale maggiore, si apriranno opportunità nella digitalizzazione e, soprattutto, nella gestione del capitale umano, della sostenibilità delle risorse e della diversity.

L’uomo dovrà usare sempre di più il cervello non le braccia, questo ciò che dovrebbe significare “progresso”.

La speranza è che, davvero, qualcuno riesca a farsi portatore dei grandi cambiamenti all’orizzonte e sappia disciplinarli verso nuove logiche di redistribuzione e di equità. Ai posteri l’ardua sentenza…

Annarita Lardaro

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