Anna Achmatova – La voce della Russia

«Io sono la vostra voce», recita un verso di Anna Achmatova, poetessa che ha rappresentato l’epoca staliniana della Russia più di chiunque altro, sia attraverso le sue poesie, sia con la sua esperienza di vita.

Oggi, tra gli appassionati di letteratura russa, e più in generale tra gli amanti della poesia, è impossibile non conoscere il nome di Anna Achmatova, perché i suoi versi sono significativi degli «anni carnivori» che ha vissuto e condiviso con tutta la popolazione russa, ma più ancora perché è la testimonianza vivente di come l’arte della parola sia quella in cui i russi hanno prodotto i migliori risultati.

Eppure, la voce di questa poetessa per molti anni è stata silenziata da un regime repressivo che le ha fatto scontare la sua voglia di libertà intellettuale. In questo modo l’Achmatova è diventata una rappresentante anche di tutta l’intellettualità russa che è rimasta schiacciata dalla macchina politica di Stalin, e, essendone sopravvissuta, ha potuto più di chiunque altro raccontare quello che quegli anni hanno significato per i poeti e per il popolo tutto.

Anna nacque sul finire del XIX secolo (1889) nella periferia dell’impero russo, ma fin da piccola si trasferì con la famiglia a San Pietroburgo. Come per molti altri scrittori, questa città ha avuto una parte essenziale nella sua formazione intellettuale, con le sue nebbie, la sua eleganza architettonica e artistica, i suoi giardini e soprattutto gli scrittori che abitarono lì prima di lei.

A contribuire alla sua formazione fu anche Nikolaj Gumilëv, il poeta che Anna sposò nel 1909 e con il quale passò tutti gli anni prima della rivoluzione: con lui, la poetessa viaggiò, andò a Parigi dove conobbe Modigliani, e iniziò a poetare.

Le poesie di Anna furono da subito popolarissime, sebbene all’apparire non avessero niente di speciale. Già i suoi primi versi erano – e sono ancora – densi di realtà oggettuale, dalla quale le emozioni vengono evocate, ma mai chiamate per nome. Questa tecnica, così come il lessico scelto, dà ai suoi versi un’eleganza e una raffinatezza che non sfiorano mai il manierismo o i toni patetici.
La sua poesia si opponeva alle correnti simbolista, ancora molto in voga a inizi ‘900, e futurista, che proprio in quegli anni si andava formando (nel 1912 Majakovskij e Burljuk pubblicano l’articolo Schiaffo al gusto del pubblico).

Essendo così ancorati alla realtà, i suoi versi manifestano un continuo spostarsi dalla sfera intima a quella della Storia, spesso nella stessa composizione: così, accanto a indicazioni sulle sue vicende amorose, sulla sua concezione dell’eros e del sentimento, in ogni caso sempre evocato, sfiorato, troviamo gli echi della guerra mondiale prima, e della rivoluzione poi.

La rivoluzione entrò prepotente nella lirica di molti artisti, e purtroppo anche nelle loro vite. Nel 1921 Gumilëv, da cui l’Achmatova aveva divorziato qualche anno prima, veniva fucilato. Qualche giorno prima Aleksandr Blok, poeta amatissimo dai suoi contemporanei, era morto in silenzio, come a causa di un prolungato suicidio, dopo essersi sentito tradito da una rivoluzione che aveva appoggiato entusiasticamente.
Molti poeti, scrittori e artisti cominciarono a lasciare la Russia, e si rifugiarono a Parigi. L’Achmatova, però, decise di restare a casa, come se sentisse il dovere morale di trovarsi con il suo popolo nel momento di maggiore difficoltà:

mi chiamava, diceva «vieni qua,
Lascia il paese sordo e peccatore,
Lascia la Russia per sempre.
[…]»
Ma calma e indifferente,
Io mi tappai le orecchie con le mani
Perché l’indegno discorso
Non profanasse l’anima dolente.
(1917)

Questa scelta costò ad Anna conseguenze terribili per la sua vita: sebbene, infatti, il partito non potesse contestarle niente di realmente anticomunista, tuttavia la sua poetica era molto diversa da quella proletaria che si stava affermando, anche grazie all’intervento politico, in quegli anni. La lirica raffinata dell’Achmatova rappresentava un’espressione artistica del passato, in cui il ceto intellettuale niente aveva a che fare col popolo e con i problemi sociali, economici o politici. Sarebbe stato impossibile pensare di trovare nelle poesie dell’Achmatova riferimenti alla NEP o alle fabbriche sovietiche, come invece si ritrovano in Majakovskij.

Tutto questo fece sì che, con la stretta della censura nel 1934, il partito cercò di colpire Anna indirettamente, di portarla al silenzio letterario. Così, da un lato le sue poesie non vennero più pubblicate, dall’altro lato – cosa ancora più terribile – il suo unico figlio Lev venne arrestato due volte e per diciassette mesi trattenuto nelle carceri Le Croci, per poi essere deportato nel GULAG.

Da questi mesi di incubo nacque Requiem, opera che riflette lo stato d’animo della poetessa in quei mesi, ma allo stesso tempo da voce al dolore di tutto il popolo russo, esemplificato dalle donne che come lei, ogni mattina, stavano in fila davanti al carcere per avere notizie o per portare qualche pacco ai loro figli, mariti, fratelli reclusi.

No, non sotto un cielo straniero,
Non al riparo di ali straniere:
Io ero allora col mio popolo,
Là dove, per sventura, il mio popolo era.

I problemi col partito perdureranno fino al 1953, anno della morte di Stalin. È vero, in effetti, che lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale significò, da un certo punto di vista, una liberazione per il popolo sovietico e un motivo di unirsi insieme in una lotta comune contro il nazismo (lo stesso Stalin liberò dalle prigioni forzate molti uomini ormai considerati perduti), tuttavia, dopo un breve periodo di rilassamento dovuto alla vittoria dell’URSS, ci sarà un’altra ondata di repressioni che colpirà di nuovo la poetessa, attraverso l’arresto del figlio.

Se, infatti, gli anni della guerra sono rappresentati dai cicli di poesie Nell’anno ‘40, Il vento della guerra, dove è forte l’accento patriottico e la spinta a unirsi contro il nemico straniero (sul nostro orologio suonò l’ora del coraggio / e il coraggio non ci abbandonerà. / Non ci spaventa cadere sotto il piombo, / non ci duole restare senza tetto, / ma noi ti salveremo, favella russa, / alta parola russa), nel 1950 vediamo la poetessa impegnata nella composizione di quindici liriche dedicate a Stalin e intitolate Gloria alla pace: un tradimento dei suoi principi per salvare suo figlio dalla fucilazione.

Come già accennato, Anna Achmatova troverà una meritata pace solo alla morte di Stalin e negli anni di destalinizzazione, in cui le sue poesie finalmente verranno pubblicate, e lei inizierà a ricevere premi e onori.
La sua poesia è stata importante per il popolo russo perché è riuscita concretamente a dare voce al sentire delle persone. Così è stato negli anni ‘30, quando ha raccontato il dolore senza voce dei russi di fronte al terrore staliniano, la loro coscienza spezzata; così è stato negli anni della guerra, nei quali ha riconosciuto l’enorme carica liberatoria di un invasore nemico che poteva essere chiamato per nome, di uno sfogo contro tutti quegli anni di angoscia.

Ovviamente non è stata l’unica a far ciò (in prosa, ad esempio, il giornalista Vasilij Grossman ha fatto altrettanto, intuendo e descrivendo le coscienze russe durante la seconda guerra mondiale e poi subito dopo la morte di Stalin, con il risveglio dell’individualità), ma la sua poesia, pur nella disperazione, non ha mai abbandonato i toni alti e raffinati della prima produzione: i suoi versi sono sempre stati quasi alteri, una dimostrazione della tradizione pietroburghese che non può essere uccisa nemmeno con il terrore.
In questo senso, allora, è del tutto condivisibile la sua richiesta espressa nell’Epilogo di Requiem:

E se un dì pensassero in questo paese
Di erigermi un monumento,
Acconsento ad essere celebrata
Ma solo a un patto: non porre la statua
Accanto al mare dove nacqui –
Col mare ho reciso l’estremo legame –
O nel parco dello zar, presso il fatale ceppo
Dove mi reca l’ombra sconsolta,
Ma qui, dove stetti trecento ore e dove
Non mi apersero i chiavistelli.
Perché anche nella beata morte temo
Di scordare un rombo di nere Mariuša,
Di scordare come l’odiosa porta sbatteva
E – bestia ferita – una vecchia ululava.
E dalle immote, bronzee palpebre
La neve sciolta scorra come lacrime,
E il colombo del carcere tubi di lontano,
E vadano le navi placide sulla Nevà.

 

Maria Chiara DAgostino

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