“Deal of the century”: il nuovo piano di Trump per la pace tra Israele e Palestina si basa su uno stereotipo?

È stato spesso definito “deal of the century” ovvero l’accordo del secolo durante la sua campagna elettorale: un piano per la pace tra Israele e Palestina dal quale entrambi i paesi dovrebbero beneficiare.

Nessuno ha mai saputo con precisione che cosa fosse compreso in questo piano rivoluzionario. Il mondo ne ha avuto un assaggio con il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele, che, per fortuna degli israeliani e del Presidente americano, non ha portato squilibri nel mondo arabo, se non il mutuo riconoscimento di Gerusalemme Est a capitale dello Stato palestinese.

Pochi giorni fa, il mondo ha conosciuto la seconda parte dell’accordo: l’annessione dei Territori Occupati a Israele. Tale prospettiva ha immediatamente fatto scattare la reazione di totale chiusura da parte del leader dell’OLP Abū Māzen che ha decretato la sospensione di qualsiasi trattativa con Israele e USA. Sul versante israeliano, il Knesset (parlamento israeliano) ha bocciato una bozza di legge che avrebbe comportato l’annessione dei Territori Occupati allo Stato ebraico. Perché annettere i Territori Occupati non porterà benefici a Israele, ma provocherà un’ulteriore spaccatura tra la leadership del capo di stato Netanyahu e il suo popolo, che per il 65% è favorevole ad una soluzione con due stati indipendenti e autonomi e contrario agli insediamenti in Palestina, considerati una minaccia per ogni tentativo di risoluzione pacifica di un conflitto ormai ultradecennale.

Ottimo piano di pace, diametralmente opposto rispetto ai desideri della popolazione che cerca di preservare. Perché Trump incarna tutti gli stereotipi possibili, è il prototipo del classico americano cresciuto a luoghi comuni, con il mito della grande America dei carri armati e delle armi e fiero della sua discendenza bianca.

Per ogni altro popolo ci sono sempre delle spiegazioni popolari molto efficaci: i messicani sono trafficanti di droga, i cinesi vogliono il potere economico a qualsiasi costo, gli europeo non hanno il fegato di prendere decisioni importanti e gli arabi sono terroristi. Tutti. E gli israeliani sono fedeli alleati, l’unico faro di democrazia in Medio Oriente e grandi donatori di ricchezze in America. Insomma una visione spanno metrica del conflitto arabo-israeliano e dell’integrazione tra palestinesi e israeliani: il 25% degli abitanti di Haifa è palestinese, circa 1 cittadino su 4 in Israele ha origine arabe, nel Knesset siedono rappresentanti del popolo palestinese, numerose associazioni no profit israeliane si occupano della convivenza pacifica tra israeliani e palestinesi nei Territori Occupati e spesso organizzano proteste contro l’eccessivo controllo militare in Palestina. E Netanyahu deve fare attenzione ad allearsi uni direzionalmente con Trump. Un’alleanza troppo stretta tra i due leader rischia di far perdere popolarità e consensi ad Israele agli occhi del mondo, in particolare agli occhi delle Nazioni Unite.

Solo 10 Stati hanno approvato il piano di Trump, il cosiddetto “deal of the century”, di riconoscere Gerusalemme capitale d’Israele, ma dubito che altri Stati voteranno di annettere i Territori Occupati a Israele. Lo Stato Ebraico non può permettersi di rimanere isolato a livello internazionale, e se Trump non vincerà le prossime elezioni presidenziali, l’apparente alleato e “amico”, che si è auto proclamato difensore di Israele non avrà più influenza e potere su nulla. Ma se Israele verrà etichettato come unico paese simpatizzante di un Presidente sessista, razzista e politicamente incompetente, lo Stato Ebraico rischia di non trovare alleati nelle Nazioni Unite e di passare facilmente dalla ragione al torto.

Martina Seppi

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