“I Dodici” di Aleksandr Blok – un poema per la rivoluzione

Ripercorriamo le prime tappe della Rivoluzione d’ottobre attraverso le parole di un poeta che ha saputo dare una lettura originale degli sconvolgimenti che hanno coinvolto la Russia un secolo fa.

Quest’anno si celebra il centenario della rivoluzione russa, così importante non solo per la Storia, ma anche per l’immaginario di molti artisti slavi e non, che, con gli sconvolgimenti del 1917, hanno visto nascere un mondo completamente nuovo.

Marcia di protesta durante i moti del 1917

Lo svecchiamento ha avuto le sue ripercussioni anche nell’arte e nella letteratura, e forse anzi proprio poeti e pittori hanno sentito per primi la spinta rivoluzionaria, e hanno applicato i principi di rottura anche nelle loro opere; d’altronde si sa che gli artisti hanno una speciale sensibilità nel percepire i cambiamenti sociali e storici.

Se è vero che si può ricostruire le prime tappe della rivoluzione attraverso le parole degli scrittori russi, è però giusto soffermarsi su un poeta che, pur appoggiando la svolta rivoluzionaria del proprio Paese, non è riuscito ad adattarsi alla nuova corrente futurista, fino al punto di rimanere letteralmente in silenzio. Questo poeta è Aleksandr Blok.

Nato a Pietroburgo nel 1880 da una famiglia appartenente all’intellettualità russa, cominciò a scrivere versi molto presto, frequentando circoli letterari e fondando sodalizi con altri poeti russi, come Andrej Belyj e S. Solov’ev. Accolse con fervore la rivoluzione del 1917, alla quale dedicò alcuni infiammati componimenti, ma ben presto all’entusiasmo subentrò la disillusione, seguita da un isolamento poetico dovuto all’affermarsi della nuova corrente futurista. Ammalatosi, morì a Pietroburgo, ormai Pietrogrado, nel 1921.

Il suo poema I Dodici è dedicato proprio alle prime fasi della rivoluzione, ed infatti è stato scritto nel gennaio 1918, solo pochi mesi dopo la presa del potere da parte dei bolscevichi, e descrive con successo lo stato di spaesamento e insieme di entusiasmo vissuto dai suoi connazionali – e da lui per primo – di fronte all’instaurazione del nuovo ordine.

Questo lungo componimento, di 335 versi, è ambientato in una sera di bufera di gennaio, e, benché segua le gesta dei dodici rivoluzionari, da cui appunto prende il nome, si sofferma tuttavia su diverse percezioni della rivoluzione, attraverso vari personaggi: la vecchietta che non capisce lo spreco di fogli per gli slogan politici («Piange una vecchia, sta a soffrire, / mai capirà che vorrà dire, / a che serve lo striscione, / quell’enorme telone»), il letterato dai capelli lunghi che decreta la morte della Russia («Traditori! / La Russia muore!»), il prete che cammina tra la neve, il borghese che alza il bavero del colletto per ripararsi dal freddo («Passerotto di un borghese: fila!»), il cane tignoso, e i dodici bolscevichi che proseguono nella tormenta per andare a combattere.

E lo sconvolgimento rivoluzionario si riversa nella vita di ognuno, con esiti rovinosi perfino per i dodici compagni: uno di loro, Pet’ka, uccide la sua amata prostituta Kat’ja, e già non è più chiaro se a spingerlo a tanto sia stato il tradimento in sé o il fatto che il suo nuovo amante Vanja fosse un soldato, quindi un nemico.
Pet’ka è un compagno ma è anche un uomo, e si tormenta per quel che ha fatto, quasi impazzisce, riversa il suo dolore sui compagni, che però gli ricordano del loro primo e unico impegno: la guerra («ma che sei, una comare? […] / Ma ti pare che è il momento / di sentire la tua lagna?! / Ci son cose più pesanti / che ci attendono, compagno!»).

La particolarità del poema è proprio l’inserire una grande varietà di situazioni che si accorda con la molteplicità di toni usata da Blok: dal linguaggio basso da bordello – dove vanno a rifocillarsi i dodici insieme agli operai, e dove si trova Katja – a quello aulico e addirittura religioso, per esempio nell’ultima parola del poema: Cristo, «Iesuchristo». Persino nella grafia del nome di Gesù, Blok si rifà alla tradizione ortodossa più antica.

E come mai, in un inno alla rivoluzione, è presente Gesù Cristo? Questo è ciò che ha creato scompiglio anche un secolo fa tra i critici e i letterati: la rivoluzione bolscevica è stata una rivoluzione atea, e in questo stesso poema si ripete spesso il sintagma «senza croce», eppure proprio alla fine, quindi in posizione di estremo risalto nella costruzione del componimento, compare il nome sacro per eccellenza. Probabilmente, concordando con la lettura che ne dà Cesare G. De Michelis, è perché Blok percepisce la rivoluzione, impersonata dai Dodici, come un andare, come una processione aperta da un Cristo-guida per la creazione del suo Regno sulla terra di Russia.

Il testo è interessante anche a livello musicale, come lo stesso Blok si era reso conto, grazie a un continuo gioco di rime, che ha creato non pochi problemi ai traduttori italiani: il loro principale dilemma è stato se rispettare la musicalità, sacrificando il senso letterale del testo, o se operare in maniera opposta, a discapito delle rime russe. Proprio per questo motivo, in Italia sono state fatte circa 14 edizioni del poemetto. La più recente, e probabilmente la più mediana tra le due prassi traduttive, è quella di De Michelis, che è riuscita a restituire al lettore italiano una versione puntuale e musicale.

Tuttavia una bella interpretazione del componimento ce l’ha lasciata Carmelo Bene, seguendo la traduzione di Renato Poggioli, che sarà pure infedele, ma tuttavia davvero travolgente.
Carmelo Bene – I Dodici di Aleksandr Blok

Maria Chiara DAgostino

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