Recensione del romanzo “Domani, chiameranno domani” di Andrea Salonia

Augusto C. è l’esperto dell’acciaio al carbonio. La sua luce adamantina risplende nell’atmosfera buia delle sale di lavorazione della fabbrica, di lui tutti i suoi operai sanno tutto, se è irato, la macchina che guida.

Biografia.

Nato nel ’71, a Como, medico al San Raffaele.

In una vacanza in moto in America scrive il testo su un vecchio I-phone: ma al ritorno, la tecnologia lo tradisce e le parole scritte non si salvano. Le idee però restano e in Giappone, nel 2015, le riscrive ovunque si trovi fino alla fine.

Breve sinossi del romanzo “Domani, chiameranno domani”.

Augusto C. è l’esperto dell’acciaio al carbonio.

La sua luce adamantina risplende nell’atmosfera buia delle sale di lavorazione della fabbrica, di lui tutti i suoi operai sanno tutto, se è irato, la macchina che guida.

E lui, Augusto C. cosa conosce dei suoi dipendenti?

Da quando le sue ragioni sono consegnate soltanto a se stesso, nella preparazione personale delle risposte che lui in coscienza darà al giudice, solo rimuginate in un cervello che tutto misura, di lui non sapranno più niente, i suoi dipendenti. Giacché non può ricevere telefonate neanche dalla madre, Pata.

Con le sue nenie di famiglia avrebbe potuto, lei, sì, lenire il peso sul cuore del figlio, ma ha l’embargo a visitarlo. Anche lei non può avvicinarsi o telefonare.

Lui che tutto misura. Misura, giorno dopo giorno, e ne passano, ogni fuga di mattonelle, ogni sconnessura del pavimento, di quell’appartamento in cui avrebbe voluto solo passare la sua vecchiaia e che è diventato un castigo.

Misura tempi e gesti e oggetti. Come a fissare punti di riferimento di cui possa essere il baricentro. Che le cose intorno a lui possano essere sotto il suo controllo, almeno quelle!

Dal letto al bagno in cinque secondi, aprire la porta del bagno, afferrando la maniglia con le cinque dita; sulla ceramica del lavabo presenti cinque bicchieri; …prendere lo spazzolino con la destra, poggiarlo prendere il dentifricio, passarlo, poggiarlo, aspettare cinque secondi… e così ogni mattina.

Recensione.

Acciaio di Augusto C.

Ha scovato cose nel profondo per restare a galla, Augusto C. In quel punto dopo la lettera C. sta la sua finitezza di uomo e comincia dal limite della sua carriera.

Ingegnere dell’acciaio. Uomo dedito. Al lavoro, ai suoi processi di produzione. Alla colatura del ferro che sfrigola come un gemito a contatto con l’acqua per raffreddarsi. Conosce tutti i passaggi minimali della trasformazione dell’acciaio. La dura disciplina della conversione della materia ferrosa in acciaio. Ora quell’acciaio deve essere Lui.

Mantenersi vitale finché lo giudicheranno. Anzi, a tratti, gli sembra l’abbiano già giudicato Colpevole.

E lui entra nel processo di fare e disfare la tempra di se stesso per giungere al puro acciaio della sua persona.

Il Prisma “Augusto C.”, prima.

Affronta il liquefarsi della materia per tentare di ricomporre quel prisma intatto che era la sua vita.

Sì, Augusto C. è un prisma. Rilucente, riflettente, ricorda tutti i suoi 11.000 dipendenti. Un rosario di nomi come nella Via Crucis, ma il rosario è fatto di persone vive, con le loro precise caratteristiche, i nomignoli, le competenze, i caratteri.

Ricorda con dolore la morte di uno dei suoi dipendenti, la sua caduta e il suo funerale.

Ricostruisce ogni attimo di quella sua vita e anche se è rimasto in prigione solo per diciotto giorni, si sente deprivato, abbandonato dal se stesso di prima.

Una sfilza di nomi che conosce e che conoscono lui. Ora però non sanno di lui se piange la sera.

La saggezza di suo padre gli viene incontro, ma per schiaffeggiarlo, stavolta. Non gli è di grande conforto.

La saggezza di suo padre è la saggezza della gente di campagna prestata al mare.

Espressione che racchiude un mondo pieno di cose, odori, sapori, sensi e razionalità, opposti che si combinano in un padre che, chino rasoterra sopra i frutti da raccogliere della sua campagna, inala profumi di terra e olezzi di pesce misti al salmastro marino.

In contatto col centro di sé e la fatica di chi sa di stare dove vorrebbe essere.

Una saggezza senza retorica quella del padre di Augusto C. capace di elasticità mentale. Del tipo, ognuno ha il suo posto e non c’è un posto uguale per tutti. Nessuna protervia paterna di legare i figli a quella terra ma disponibilità a lasciargliene cogliere l’anima per portarla ovunque fosse stato il “loro posto”.

Ognuno ha il suo posto.

Per Augusto C. era stato il Nord d’Italia, simile a com’era fatto lui, solo e privo di parole (“vuoto di parole”. Per Lui questa è una vera prova del destino, perché dovrà fare incetta di parole per sopravvivere!).

E poi viene il tempo in cui il posto che abbiamo costruito con la mente, dove abbiamo fatto con le nostre mani una panca, i muri, di cui conosciamo tutti gli spigoli, le fughe delle mattonelle del bagno, diventa odioso, e da esso vorremmo scappare.

E quel posto non è più quello che avremmo voluto abitare.

Forse è solo un momento sbagliato. Ma è il momento in cui Augusto C. recrimina sulla saggezza del padre e la vive come uno sbaglio: non sempre il momento giusto coincide col posto giusto, quello che era giusto in altri tempi può diventare una ferita che fa male.

E ad Augusto C. fa male la sensazione di colpa che prova per avere privato della libertà il padre, quando per la demenza in cui era incorso, si era sentito in dovere di portargli via insieme alla libertà anche la sua bicicletta Bianchi azzurro del cielo.

Tra una ricetta e se stesso.

Il rapporto tra Augusto C. e la vita per sopravvivere al danno è giocato nei contrasti tra una crema di fave, le puree di legumi, le ricette della madre dell’Americano, la nonna paterna di Graziella, moglie di Augusto C. e l’aporia della non avvicinabile lega d’acciaio al carbonio 99%.

Le prime a legare saperi semplici a sapori ancestrali custoditi e tramandati per traghettare l’anima per la terra lagrimosa  (Dante Alighieri) di Augusto C.

Incantevole appare l’intreccio di scrittura tra maschile e femminile che finisce per congiungere ciò che sembra separato. Stranamente armonico nella sua apparente distopia, presente. E futura?!

Per il padre e la madre di Augusto C. la storia delle cose sta nel valore simbolico del punto di origine del noi. Essa appare fondativa di una famiglia e della comunità.

E la nenia di famiglia di mamma Pata è lo strumento di trasmissione della tradizione storica orale che parla della sua famiglia e dei riti della pulizia, che dall’imbiancamento stagionale dei “muri di casa” arriva, attraverso il suo valore penitenziale, alla nettezza del sé.

A questo processo di costruzione di una comunità dentro-fuori appartengono la scansione stagionale del tempo dato dalla raccolta delle olive e dalla vendemmia, il sapore-odore salmastro del mare, il profumo caldo del caffè, la libertà nella testa, i vecchi a fare la ruota a sera nel vicinato sull’acciottolato fronte strada.

Voglia di essere libero.

E quella libertà di testa per Augusto C. si è commutata in metri quadrati camminati, calpestati, a piedi nudi misurati, che chiudono un’altra giornata, una dopo l’altra.

Mancanza di un orizzonte che sia limite, di là del quale potersi muovere per superarlo e andare avanti. Il bordo tavolo dove era stesa la sfoglia della pasta, lavorata da mamma Pata, era un tempo l’unico suo limite.

Un limite come un termine oltre il quale ci sia un oltre. Questo significa per sé essere al centro di uno Spazio e di un Tempo, il proprio, quello di Augusto C.

L’affermazione corporea di sé, attraverso il ripetersi “sono un ingegnere e sono un uomo”, “ho spazio e tempo intorno, una direzione, un corpo” lo salverà?

The book cover.

Il piacere del testo di Andrea Salonia comincia già dal manufatto “libro”.

Il piacere di togliere la sovracopertina del libro, the book cover. Un piacere tattile che scovo sempre nitido quando “spoglio” un testo cartaceo.

E l’attesa si fa trepida dopo averlo sfogliato del suo primo indumento. Non perché la sovracopertina sia inutile. Anzi, espone una sintesi e una promessa, quella del libro che verrà.

Sì, perché il testo di Andrea è carnale, non nel senso di erotico ma carnale, nel senso di “fatto di carne e di nervi”, di quelli che si connettono al cuore e alla ragione e che sperdono entrambe… logorate dall’attesa di un giorno che forse non arriverà mai.

Carnale, dicevo. Perché il testo sveste degli indumenti della maschera quotidiana un “uomo fatto” e lo avvicina all’essenza della carne e del sangue di cui è impastato, di cui siamo fatti tutti, quando rimaniamo nudi davanti a noi stessi.

Paesaggi dell’anima.

Specchio, specchio delle mie brame… chi è il più desiderato del reame? Sì, perché la domanda, soddisfatta già della risposta saputa, non sarà la solita che ci si aspetta! E non sarà la solita risposta che nemmeno paventiamo… sarà una che ci nascondiamo… la peggiore… Quella (la risposta) che restituisce come una cartina al tornasole un sé lontano anni luce e che ci è venuta a trovare, ospite inattesa e non proprio benvenuta.

Sarà l’apparizione del nostro Dorian Gray, annichilente!

Lo specchio, per Augusto C., quello che ogni mattina di questo tormentato tempo gli rimanda se stesso è come se avesse cambiato luce. Rimanda nembi oscuri, dentro cui Augusto C. perde via via un pezzo di sé.

Sottrazione di sé per parti.

Perde la libertà di muoversi dentro e fuori, la libertà di decidere, quella di scegliere. Smarrisce il gusto, perde l’udito, l’odorato, e perde la parola. Perde le persone che lo attorniavano quando era un intero.

Perde i sentimenti, li avverte modificati. È un processo senza appello.

E da questa ordalia di sensazioni, di emozioni lui affiora nudo, privo di spessore …. Per consegnarsi a chi giudicherà la sua colpa. È un percorso di purificazione, di mondatura delle cose guaste, che può giungere all’annientamento di sé.

E in tutto questo centellinare il tempo da intercorrere tra sé e il momento in cui lo chiameranno… domani!, si perde la domanda con cui tu, lettore, hai iniziato a leggere il testo: “É colpevole Augusto C.?! “.

Centotrentasette virgola cinque metri quadrati.

Sono questi gli spazi in cui è confinato Augusto C.

E in questa ristretta dimensione mi sono trovata tra le mani un prisma e come tutti i prismi mi ha abbacinato e portato dentro di sé, nelle mie prigioni.

Se ho avuto difficoltà a scrivere questa recensione non è stato per responsabilità, per insania del testo ma proprio per il suo opposto.

Ossia per la profondità dello stesso. La profondità delle immagini che il testo ha saputo produrre nel leggerlo.

Fecondo di metafore che non hanno lasciato scampo alla mia vita riflessa nel prisma Augusto C.

E nel leggerlo mi è apparso un passo di Montale del suo Carnevale di Gerti: “Tutto arretrerà dentro un disfatto prisma Babelico di forme e di colori”.

A piedi nudi.

Augusto C. è un prisma, con allusione letterale all’effetto di scomposizione, di deviazione, di alterazione operato dal prisma ottico sui raggi luminosi. Riflettente.

Ed è un prisma, in senso figurato. Ma non distorcente se stessi…

Mi spiegherò meglio.

Da Treccani, recupero il senso figurato di “prisma”: in quanto comporta una visione o un’interpretazione falsa e ingannevole della realtà: il pdelle illusionidelle passioni

Il senso figurato di “prisma” è confacente se il prisma viene posto davanti a sé ed esso produce, in quanto riflette, l’oggetto della nostra visione, l’altro da sé.

Di fatto induce distorsione della realtà che davanti al senso dei nostri occhi, a noi, si mostra falsa e ingannevole.

Vedo, attraverso un prisma, una cosa che non corrisponde a ciò che vedo a occhio nudo. Mi sento confortato dalla realtà che ho intorno e della mia sanità mentale.

Ma se poco poco mi discosto e mi faccio trascinare dalla luce catturata dal prisma allora ci sono dentro e, dentro, la mia realtà cambia, nell’atto stesso di aver superato un limite tra me e l’altro da me.

E quando quel prisma siamo noi, esso è tutt’uno con noi, allora quella figura di luce e d’ombra più che distorcere la nostra realtà umana, la amplifica, la mostrifica, nel senso che può mostrare il numinoso che è in noi, il percipiente non è più sé separato da altro, ma è un intero… E se non abbiamo paura, noi-il-prisma ci nudifica, ci apre affinché si possa farne conoscenza profonda.

Nessun inganno, dunque, ma estrema resa di noi a noi stessi.

Come tutto si fa strano e difficile, 
come tutto è impossibile, tu dici.
La tua vita è quaggiù dove rimbombano
le ruote dei carriaggi senza posa
e nulla torna se non forse in questi
disguidi del possibile. Ritorna
là fra i morti balocchi ove è negato
pur morire; e col tempo che ti batte
al polso e all’esistenza ti ridona,
tra le mura pesanti che non s’aprono
al gorgo degli umani affaticato,
torna alla via dove con te intristisco,
quella che additò un piombo raggelato
alle mie, alle tue sere:
torna alle primavere che non fioriscono.
(da “Le occasioni”, Carnevale di Gerti, Eugenio Montale, 1928)

I paesaggi di Manduria, Somalia?

Il “prisma Augusto C.”  ha  viepiù indotto un’altra visione.

La visione della colpa che ho ritrovato, leggendo de il signor K., un banchiere, ne “Il processo” di Franz Kafka.

Qui abbiamo una colpa senza nome, e il signor K., per quanto agli arresti, è comunque libero di andare a lavorare e di svolgere le sue normali azioni quotidiane.

Qui siamo nel mondo onirico di Franz Kafka, nei suoi rimorsi, nel mondo di dentro del signor K.

Abbacina in questo paesaggio l’Ombra.

Non c’è Prisma luminoso, ci sono soltanto prospettive deformate come nelle visioni oniriche di alcune pellicole in b/n, anni ’20, (vedi. “The cabinet of Dr. Caligari”).

Di contro alla certezza di Augusto C.  che… domani, chiameranno domani.

Di contro al fatto che esista ancora, nel mondo di Augusto C., un margine di giustizia, intesa come equità della pena commisurata alla colpa e che pertanto esista una possibilità di discolpa…

…Nel mondo del signor K.Le () autorità non cercano la colpa nella popolazione, esse sono attirate dalla colpa”.

Nel signor K. la colpa è preesistente, geneticamente presente nella condizione umana.

L’ “ordine delle cose” in Augusto C. e nel signor K.

La colpa è nell’ordine delle cose… espressione vuota quest’ultima, che può essere riempita da qualunque cosa intendiamo per “ordine delle cose”. Solitamente con essa si assevera lo “status quo dei tempi”, mutevole, non inamovibile.

Nel tempo del signor K. , il tribunale difatti, quando si muove e accusa, non recede dalle accuse mosse all’imputato… perché nessuno è mai innocente.

E l’accusa non è formulata, né formulabile, sembra essere un ente superiore, una bolla come la bolla del peccato originale.

Il sentimento dominante nelle opere di Kafka è l’angoscia.

…E la vergogna accomuna Augusto C. e il signor K.

Augusto C., però non ha mai sentito vergogna per le stesse ragioni per le quali i personaggi di Kafka si turbano.

Augusto C. era un tutt’uno col suo acciaio, nessuna debolezza, nessuna fragilità, nessun timore di risultare trasparente al resto del mondo.

Io sono esperto dell’acciaio e della sua storia: l’acciaieria conosce me, la mia storia e quella della mia famiglia”.

“Mio marito, Augusto C., è il direttore della fabbrica più grande d’Italia”.

Questi erano i pensieri, prima della vergogna dei domiciliari, tanto da fargli dire, ad Augusto C., all’epoca dei nuovi fatti, “meno male che mio padre è morto e non deve assistere a questa vergogna”.

E tutto si modifica, quando in piena notte vanno a prenderlo a casa.

Lui diventa un albero secco, un pesce muto, un sasso, una talpa cieca, per diciotto giorni è un uomo in carcere… per diciotto giorni.

E quando alle cinque del mattino vengono a prenderlo, dunque, Augusto C. si vede scorrere la vita davanti, fotogramma per fotogramma e si sente in difetto, come se avesse commesso il peggiore dei delitti.

La definitiva ratio del signor K.

Il signor K. viene prelevato a casa sua una sera, senza visita annunciata, è il suo trentunesimo compleanno.

Loro dunque sono destinati a me?“, chiede rassegnato. Conosce già la risposta. I due uomini annuiscono. Ed è tutto.

Anche il signor K. non reagisce perché sa di essere all’ultimo duello con la morte. Lui, il signor K. si rende conto di non avere più scampo. Pensa: “L’unica cosa che posso fare è conservare fino alla fine il raziocinio che inquadra tutto con calma“.

Augusto C. inquadra razionalmente il suo comportamento in carcere, nella sua tuta grigio perla e pantofole bianche.

Augusto C. sistema nella mente il luogo delle docce, sono 20 in 10 mtx4. Le persone sono molte di più, ogni doccia solo per venti minuti per ciascuno. Ogni persona è un colore, come fosse una cosa, così da dimenticarle più in fretta, dopo.

Il mondo, il piccolo mondo di Augusto C. che di sogni non ne aveva mai coltivati molti, ma di certezze basate su di sé ne aveva tante, diventa una grande distopica dimensione.

La distopica visione presente.

Difatti, se l’utopia è il mondo quasi perfetto che ha conosciuto nel Salento, il posto che avrebbe potuto essere il suo posto giusto, una volta scelto, ora la distopia  mette Augusto C. in scena in quello stesso luogo per farne qualcosa di indesiderabile e spaventoso.

A ributtare indietro il brivido intenso davanti quel mare grigio freddo che è la figura di Augusto C. in carcere, appare la moglie, Graziella, con la sua borsa di indumenti che non le permettono di portare con sé, con la forza della sua disperazione trattenuta a stento “su un paio di pianelle bianche”, quelle di  Augusto C. senza scarpe calzate.

Un attimo prima dell’esecuzione, il signor K. vede uno sconosciuto affacciarsi improvviso a una finestra a tendergli le braccia.

In quel frangente ha solo il tempo di chiedersi: “Chi era? Un amico? Un buon diavolo? Un sostenitore? Uno che voleva aiutare? Era uno solo? Erano tutti? Dov’era il giudice? Dove il supremo tribunale? “.

Solo un’ultima immagine e più domande che non troveranno mai risposta nella mente del signor K. 

Per il signor K. il rinvio a tempo indeterminato del processo si conclude con una pena capitale che gli porterà via la vita in modo definitivo.

Anche Augusto C., che ha tentato di riempire il tempo di un rinvio altrettanto logorante, arriverà a sentenza…domani, forse domani.

Il romanzo di Franz Kafka ruota attorno alla colpa, il romanzo di Andrea Salonia si fonda soprattutto sull’attesa e sulla disperata mania di razionalizzarla, facendo ricorso a tutto il mondo di dentro di Augusto C.

Augusto C. è stato accusato di inquinamento ambientale, delitto reiterato e camuffato colpevolmente da lui: sversamento di materiali dannosi per gli uomini, i terreni, le acque, e gli animali, tutto attorno alla fabbrica.

Augusto C. è innocente o colpevole?

Andrea Salonia

Domani, chiameranno domani

Edizione Mondadori Electa, 2017

Pagine:  222

Prezzo: 14,36 €

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