“La lanterna magica di Molotov” di Rachel Polonsky

Con La lanterna magica di Molotov, Rachel Polonsky ha viaggiato attraverso i luoghi della Russia che hanno ispirato i pensieri e le penne di tanti personaggi più o meno famosi, e che attraverso il suo studio tornano a vivere in un dialogo tra le loro epoche e quella presente.

Il lettore resta interdetto di fronte al titolo del libro: come può accordarsi una lanterna magica, evocazione di mondi fiabeschi e avventure, a un nome così ancorato alla Storia – alla sua parte più buia – come quello di Molotov? Eppure lo spunto del viaggio che ha dato origine al libro è proprio nella connessione tra questi due elementi.

Partendo dalla biblioteca personale di Molotov, braccio destro di Stalin e vero e proprio bibliofilo, la studiosa Rachel Polonsky decide di compiere un lungo viaggio letterario e fisico attraverso lo sconfinato territorio della Russia, andando dal circolo polare artico fino ai confini con la Mongolia, passando per Rostov, Novgorod, e certamente Mosca, da cui tutto ha inizio. Alla scelta delle tappe contribuiscono proprio i titoli e gli autori presenti negli scaffali del civico 3 del palazzo Šeremetev, per anni casa di Molotov a ridosso del Cremlino, che vengono riportati alla luce attraverso una lanterna magica che si trova nello studio del ministro.

In questo modo la Polonsky inizia a viaggiare non soltanto fisicamente, ma anche nel tempo e nelle idee di tutti i protagonisti del dibattito intellettuale russo, incontrando sulla sua strada decabristi, esuli, importanti uomini politici caduti in rovina – è il caso di Trockij – o scienziati malvisti da Stalin e per questo condannati alla Siberia. Ognuno di loro ha lasciato un ricordo di sé nei suoi scritti, ed è inquietante pensare che Molotov, autore di tante morti nel vero senso della parola (molte delle liste di nomi con a fianco la scritta “da fucilare” sono state vergate da lui), avesse a disposizione così tanta conoscenza, così tanti libri, spesso muniti di dedica e sottolineati e studiati attentamente.

ììPerché Molotov, insieme a pochissimi altri uomini di fiducia di Stalin, aveva il diritto di possedere anche i volumi che non avevano passato la censura, e persino libri che normalmente erano considerati controrivoluzionari. Nel suo studio, ad esempio, si trovavano i libri di Dostoevskij, scrittore che Lenin disprezzava e di cui non fu mai pubblicata un’edizione di opere complete per tutto il periodo sovietico. Ma come è possibile che Molotov riconoscesse allo scrittore un significato positivo, colto da lui nella missione salvifica della Russia nello scacchiere del mondo, senza sentir rimordere la propria coscienza per i delitti commessi da lui e dallo Stato che serviva? Come non trovare tra le pagine dei Demoni la realizzazione di un avvertimento, di una sorta di profezia, sulle conseguenze del socialismo in Russia?

I pareri riguardanti Molotov, che spesso viene ritratto nel libro mentre passeggia con la moglie per le strade di Mosca, o in esilio a Vologda durante la giovinezza, sono contrastanti: geniale per Churchill, arrivista e “mezzo uomo” per Mandel’štam, il poeta che, insieme a tanti suoi connazionali, finirà i suoi giorni nel 1938 in un campo siberiano.

Eppure quest’uomo mai punito per i suoi crimini, nemmeno dopo la destalinizzazione, quando sarà allontanato dal partito, e soprattutto mai pentito delle proprie azioni, aveva in mano il potere di vita e di morte e tanta della saggezza prodotta dalle menti del suo Paese: da trattati scientifici, politici ed economici, a opere letterarie.
Il viaggio di Rachel Polonsky allora trova anche un altro filo conduttore, che è quello della libertà, politica e personale, che secondo me l’autrice ha considerato come caratteristica peculiare del popolo russo.

Ogni luogo visitato e descritto è un incontro con una personalità che si è opposta al potere oppressivo, sia esso quello zarista o quello sovietico: i decabristi, condannati da Nicola I alla detenzione in Siberia e alla privazione di tutti i diritti; la spia doppiogiochista Sidney Reilly, che aveva progettato un attentato contro Lenin all’indomani della Rivoluzione per perseguire i suoi sogni di gloria e potenza; Trockij, che si rifiuta di uscire spontaneamente dall’appartamento la sera in cui le guardie vengono ad arrestarlo, per non dare la soddisfazione al partito, di cui era stato uno dei fondatori, di poterlo dipingere in minima parte reo confesso; Šalamov, lo scrittore di Vologda che passò diciassette anni ai lavori forzati in Kolima, dove il ghiaccio è perenne e la gente è morta letteralmente di fame; perfino lo stesso Molotov, che nel 1910 si ritrova esiliato dal governo zarista proprio nella Vologda šalamoviana.

Tutti i posti sono descritti nei termini di ribellione all’egemonia di qualcuno o qualcosa, o adatto a chi fugge, a chi si nasconde. Sono dipinti in questa maniera sia l’estremo nord russo, quello delle isole Solovki e della penisola di Kola, sia le steppe di Ulan Ude e dei suoi abitanti buriati, selvaggi e indomiti, sia le città di Vologda e Novgorod, quest’ultima da sempre vista, almeno da una parte degli intellettuali, come l’unica città veramente in grado di opporsi alla potenza accentratrice di Mosca, grazie alla sua struttura politica tradizionalmente democratica.

Ogni città, ogni luogo fisico, ha una sua storia, fatta dagli uomini che sono passati di là e là hanno imparato una lezione: anche in questo c’è un messaggio di ribellione e tenacia. Le persone che sono state sottoposte alle più terribili condanne, se dotate di forza interiore, sono riuscite non solo a sopravvivere, ma anche a ricavare qualcosa di buono dalla loro esperienza: Lichačëv, durante la sua permanenza ai lavori forzati alle isole Solovki, è riuscito a sentire la presenza di Dio e a perdersi nella contemplazione nei paesaggi e nel silenzio che il Nord regala, così come i decabristi in Siberia hanno portato civiltà occidentale, istruzione, e allo stesso tempo hanno lasciato importanti testimonianze dei modi di vivere delle popolazioni locali. Allo stesso modo Lev Gumilёv, figlio della poetessa Anna Achmatova, dalla sua detenzione ha tratto ispirazione per lo studio antropologico delle popolazioni della steppa e per le sue teorie euroasiatiche.

Il potere, con le sue punizioni e le sue morti ingiustificate, non è riuscito a fermare lo spirito di libertà e di vita delle persone. E quando la natura è stata più forte del fisico, qualcun altro ha raccolto la testimonianza – penso al racconto di Šalamov dedicato alla morte di Mandel’štam.

Questo viaggio, però, collega anche le esperienze del passato russo e sovietico al presente di Putin, che in maniera intelligente, senza mai sbilanciarsi troppo nel giudizio, l’autrice non approva, proprio perché anche questo, come i governi precedenti, si serve a sua detta del sotterfugio, dell’autorità e della menzogna: la Polonsky riporta voci o opinioni di suoi colleghi riguardo teorie del complotto sugli incidenti come l’affondamento del sottomarino Kursk o sugli arresti degli oppositori alla politica del Presidente, che nell’ottica del libro diventano i nuovi rappresentanti della libertà.

E ancora, passato e presente dialogano col futuro tra le pagine del libro, quando si riflette sul ruolo della Russia nel mondo, sul suo legame con l’Europa e con l’Asia, sul suo posto tra queste due civiltà: in questo senso sono importanti i riferimenti sia alle origini del popolo slavo descritte da Erodoto, sia l’idea russa di Dostoevskij e le letture che se ne danno oggi. Perché altrimenti scegliere Staraja Russa, e non San Pietroburgo, come luogo da dedicare allo scrittore/‹‹profeta›› (come viene acclamato dalla folla quando pronuncia il suo Discorso su Puškin)?

Non so se il libro possa essere definito un resoconto di viaggio oppure no: certamente non lo è nel senso canonico, perché i luoghi descritti sono luoghi di memorie altrui, o, meglio ancora, descrizioni di vite e pensieri altrui, che dialogano con vite e pensieri di altri. Ma è vero anche che leggendo si ha voglia di visitare queste città e questi paesi, spesso così impraticabili, e sentire con i propri sensi l’immensità della Russia, la sua indefinitezza, e le conseguenze che queste sensazioni hanno sulla propria psiche.

La Polonsky dona ai lettori la sua immagine della Russia, con cui si può essere d’accordo o meno, ma che rispecchia la frase del poeta Josif Brodskij da lei usata in calce a un capitolo:

A chi…ha avuto esperienza della vita in Russia, a chi ha conosciuto il metafisico toboga russo, ogni paesaggio, perfino quello oltremondano, sembra ordinario››.

Maria Chiara D’Agostino

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