Perché Hollywood è sempre più messicana?

Anche quest’ultima edizione degli Oscar ha confermato una tendenza che sembra ormai sempre più incontrovertibile: il cinema messicano piace (e pure parecchio) all’Academy. Infatti, con la statuetta data a Cuaron per “Roma”, sono addirittura tre i registi nativi in Messico che hanno vinto l’Oscar alla miglior regia negli ultimi anni. Il merito è soprattutto dei “Three Amigos”: Alejandro Gonzalez Inarritu, Guillermo del Toro e, appunto, Alfonso Cuaron, amici di vecchia data, oltre che praticamente coetanei e connazionali. Nonostante l’autonomia delle rispettive carriere, i tre si sostengono e si incoraggiano a vicenda, scambiandosi in continuazione idee, consigli e complimenti. E così sono riusciti a vincere 5 degli ultimi 6 Oscar dati dall’Academy nella categoria dei migliori registi, con l’unica eccezione costituita da Damien Chazelle per “La La Land”. A loro, poi, si deve per forza aggiungere un altro fenomenale personaggio del cinema messicano: Emmanuel Lubezki, detto il Chivo, molto amico dei tre e unico nella storia a vincere tre Oscar alla miglior fotografia consecutivamente. Ma come è stato possibile un tale dominio? Come hanno fatto quattro ragazzi messicani partiti dal nulla a diventare i protagonisti indiscussi dell’attuale Hollywood?

Alejandro Gonzalez Inarritu

Inarritu è stato il primo regista messicano della storia candidato ad un Oscar. Dopo un’infanzia difficile, dovuta soprattutto al tracollo finanziario subito dal padre, Alejandro si appassiona all’esistenzialismo e al cinema, che studia per diversi anni, viaggiando in giro per l’Europa e per il Messico. Ma per lui risulta decisivo l’incontro con lo sceneggiatore Guillermo Arriaga, con cui intraprende un progetto tanto ambizioso quanto complesso: realizzare una trilogia cinematografica sulla morte. Il loro primo film vede la luce solo nel 2000, dopo 3 anni di duro lavoro, e si intitola “Amores Perros”. La pellicola, che parla di tre storie relative ai cani ambientate a Città del Messico e imperniate sullo stesso tragico incidente stradale, riceve diversi riconoscimenti a livello internazionale, compresa la nomination all’Oscar come miglior film straniero. È proprio quest’opera ad aprire le porte di Hollywood ad Inarritu, che da allora può finalmente lavorare con grandi compagnie di produzione e budget sempre maggiori, riuscendo a girare alcuni dei più grandi capolavori del cinema contemporaneo, come “21 grammi”, “Babel”, “Biutiful”, ma soprattutto “Birdman” e “Revenant”, con cui ha vinto i suoi due Academy Awards alla miglior regia, oltre che uno come sceneggiatore e un altro come produttore.

Guillermo del Toro

Guillermo del Toro è il più giovane tra i “Three Amigos”, nonché quello esploso più recentemente. Appassionato fin da piccolo al cinema, sviluppa col passare degli anni uno strano feticismo per i mostri e per le fiabe, oltre che una forte passione per la storia, elementi che poi diventeranno colonne portanti di molti dei suoi film. La sua svolta avviene nel 1998, quando lo sventato rapimento del padre convince la sua famiglia a trasferirsi definitivamente a Los Angeles, dove può continuare la sua carriera da regista con più tranquillità ed opportunità. In questo modo, Guillermo inizia a girare film sempre più importanti, alternando veri e propri blockbuster, come “Hellboy” e “Pacific Rim”, a opere più autoriali e personali, come “La spina del diavolo” e “Il labirinto del fauno”. Ma il suo capolavoro è più recente ed è l’unico premiato, alla fine, con un Oscar: “La forma dell’acqua”, che parla della storia d’amore tra un mostro marino e un’inserviente del laboratorio dove lui è tenuto prigioniero dagli americani durante la guerra fredda.

Alfonso Cuaron

Cuaron è il più anziano del gruppo e quello che si è affermato prima. Dopo aver lasciato l’università per divergenze con la presidenza della facoltà di cinema e filosofia, intraprende una lunga gavetta, che culmina nel 1991 con la direzione della commedia “Uno per tutte”, che lo mette in mostra anche negli USA. Così inizia a lavorare ad Hollywood, dirigendo film importanti come “Paradiso perduto” e “Harry Potter e il prigioniero di Azkaban”. Ma l’apice della sua carriera arriva negli ultimi anni, grazie ai suoi due capolavori: “Gravity” e “Roma”, per cui vince l’Oscar alla miglior regia nel 2014 e nel 2019, raccontando con grande maestria due storie tanto diverse quanto toccanti.

Emmanuel Lubezki

“El Chivo” è probabilmente il miglior direttore della fotografia della storia del cinema. Figlio di un attore e produttore messicano, inizia fin da subito a mostrare la sua naturale inclinazione per la cinematografia, che studia duramente, con l’obiettivo di diventare un artista di fama internazionale. All’inizio della sua carriera, collabora soprattutto con Cuaron, di cui è grande amico fin dai tempi dell’università, ma viene presto notato anche da altri registi, grazie alla sua immensa bravura. E così lavora per prestigiosi nomi del settore come Tim Burton, Michael Mann, Terrence Malick e Inarritu, conquistando ben 8 candidature all’Oscar e vincendo la statuetta per tre volte di fila, grazie a “Gravity”, “Birdman” e “Revenant”, in cui riesce addirittura a superare i suoi soliti livelli di eccellenza.

Cosa ha di speciale il cinema messicano?

I percorsi compiuti da Inarritu, del Toro, Cuaron e Lubezki sono quindi abbastanza diversi, così come i loro film. Ma essi hanno comunque degli aspetti fondamentali in comune, che hanno reso possibile il loro grande successo ad Hollywood. Innanzitutto, alla base del loro cinema c’è una grande passione per la settima arte, che li ha portati a studiarla per anni con devozione e rispetto. C’è poi un’incredibile e rivoluzionaria abilità tecnica, caratterizzata da lunghi e complessi piani sequenza, inquadrature mozzafiato, montaggi sorprendenti e una luce così intensa da far brillare gli occhi. Infine c’è un’elevata intelligenza emotiva, che permette loro di rappresentare al meglio i sentimenti dei propri personaggi e le loro varie vicissitudini. Per tutti questi motivi, i loro film risultano molto virtuosi tecnicamente ma mai fini a se stessi, perché gli strumenti cinematografici che utilizzano sono sempre rivolti a far esprimere al meglio la storia raccontata, che sia la ricerca di riscatto da parte di un attore fallito (come in “Birdman”) o la relazione amorosa di un mostro marino (“come in “La forma dell’acqua”) o la vita di una famiglia messicana caduta in disgrazia (come in “Roma”). Per questo (e non per via di un’inutile tendenza anti-Trump), le loro pellicole sono entrate nelle grazie dell’Academy e nei cuori degli appassionati di cinema di tutto il mondo, che ogni anno aspettano con ansia l’uscita del loro prossimo capolavoro.

Leonardo Gilenardi

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