Piovono cadaveri dal cielo su Eldorado, regno di El Chapo. E non è un horror

Eldorado, stato messicano di Sinaloa, incontrastato impero del cartello narcos degli eredi di El Chapo, si è svegliato sotto l’incantesimo di un ennesimo orrore.
Nonostante l’arresto di El Chapo Guzman, risalente al gennaio di un anno fa, le condizioni di vita e di sicurezza della gente che risiede nella zona di uno dei cartelli predominanti, Sinaloa del Messico, non accennano in nessun modo a migliorare.

Eldorado, stato messicano di Sinaloa,  incontrastato impero del cartello narcos degli eredi di El Chapo, si è svegliato sotto l’incantesimo di un ennesimo orrore.

Nonostante l’arresto di El Chapo Guzman, risalente al gennaio di un anno fa, le condizioni di vita e di sicurezza della gente che risiede nella zona di uno dei cartelli predominanti, Sinaloa del Messico, non accennano in nessun modo a migliorare.

È di qualche settimana fa la notizia raccapricciante dei corpi di tre persone, pare con evidenti segni di tortura, lanciati in volo da un piccolo aereo da turismo sulla città di Eldorado, località di Sinaloa, dove domina il cartello di El Chapo Guzman.

Le testimonianze al vaglio delle autorità locali sono degli abitanti della cittadina.

Da dove cominciare.

La regione di Sinaloa è territorio del cartello di El Chapo, conteso da altri.

Lotte intestine, all’interno dell’organizzazione, tra i figli del boss arrestato e un altro luogotenente, Damaso Lopez.

E non mancano gli scontri con altri gruppi esterni rivali, al fine di conquistare postazioni preminenti lungo l’asse usata dai contrabbandieri, nella zona costiera.

Indizi disseminati fanno propendere per inquadrare i cadaveri di Eldorado piovuti dal cielo come le vittime dell’inestinguibile lotta attuale.

Infatti  il cartello di El Chapo detiene una flottiglia privata per trasporti di sicari e partite di droga a raggiungere il confine con gli Usa.

Cause e concause dell’esistenza dei cartelli dei narcos.

Esistono i cartelli perché esiste la droga e la droga prolifica perché esistono i cartelli. L’arresto di El Chapo ha dato corso alle faide interne ed esterne.

Ne deriva una violenza inesauribile, tra i vari cartelli presenti lungo il confine settentrionale. I dati del dipartimento di Giustizia Usa stimano un giro d’affari dal traffico di stupefacenti quantificabile in oltre 23 miliardi di dollari l’anno.

Il fenomeno è esploso soprattutto nell’ultimo decennio, con una svolta nel 2006 quando l’ex presidente Calderón decise di affrontare i cartelli del narcotraffico con la militarizzazione del territorio.

Chi ne ha fatto e continua a farne le spese è la popolazione, i giornalisti che perdono la vita per fare il loro mestiere e i narcotrafficanti in lotta tra loro.

Trend di violenza in crescita.

Specializzazione narcos nella coltivazione dell’oppio, connivenze dei poteri locali, esercito e governanti, tenevano in pugno e a bada altri minori, finché c’erano i “capi”. Tra decapitazioni dei grossi cartelli e arresti dei narcos maggiorenti, le gang minori sono cresciute e senza regole si combattono il territorio.

L’Instituto Nacional de Estadística y Geografía (Inegi) nel 2014 denuncia poco meno di 20.000 omicidi.

L’ultimo dato disponibile per le sparizioni e i rapimenti, secondo l’Encuesta Nacional de Victimización y Percepción sobre Seguridad Publica, si ferma al 2012: si registrano rispettivamente circa 4000 e oltre 105.000 vittime.

La Coordinación Nacional Antisecuestro ha annunciato un incremento dei rapimenti, a marzo 2015, del 52,7%, durante il governo di Peña Nieto.

Una debacle completa del potere giudiziario per questi crimini. Alla droga imperante si aggiunge la circolazione libera di armi.

Si sono formati i vigilantes, gruppi di autodifesa regolarizzati cui l’esercito ha concesso armi per combattere i cartelli nelle zone più coinvolte. Un patto che sembra ancora più pericoloso, considerando l’eventualità della formazione di cellule paramilitari autonome non gestibili dallo stato.

Altri luoghi, altri tempi in Messico: Acapulco.

Luogo che nell’immaginario era legato ai film di produzione hollywoodiana e famosa località di villeggiatura messicana, ha tramutato la sua immagine in un noir reale e di una violenza inaudita.

Non c’è notte o giorno che sia libero di uomini uccisi e di giovani donne che emergano dalla spazzatura.

L’arrivo dei marines e del medico legale che chiude la scena del crimine, la presa in consegna di eventuali “narcomantas”,  messaggi lasciati dal killer, sono all’ordine del giorno e delle notti.

Il più delle volte nessun reclama il corpo che finisce in fosse comuni del cimitero di El Palmar, sulle alture della sierra di Guerrero.

Per pochi spiccioli o per uno spicchio di potere in più i sicarios colpiscono ovunque. E uccidono per conto dei narcos.

La fama della baia negli anni ’50 e ‘60 è una cartolina sbiadita del tempo che fu: la famiglia Kennedy in luna di miele, Elvis Presley ne è l’idolo di Acapulco, il festival internazionale del cinema, il jet set hollywoodiano e gli alberghi a cinque stelle.

Morti ovunque e militari per ogni dove. Un fallimento delle due amministrazioni presidenziali, quella di Felipe Calderón e quella del suo successore Enrique Peña Nieto.

Sembra l’elenco dei luoghi di un’infinita striscia di Tex Willer ma sono ormai tutti i nuovi e i vecchi “narco-Stati” della federazione: Guerrero, lo Stato di cui Acapulco è la città principale, Sinaloa, Chihuahua, Tamaulipas, Nuevo Leon, Durango, Baja California, Jalisco, Michoacan, Veracruz,

Gli eccidi si consumano. E’ del 2014 quello di 43 studenti di una scuola rurale Raúl Isidro Burgos, nel villaggio di Ayotzinapa, svelando al mondo ciò che i messicani conoscono alla perfezione sin dalle fasce.

Connivenze.

La connivenza tra i cartelli, polizia e esercito, le complicità politiche e dei poteri locali, l’impunità assoluta degli assassini e dei loro mandanti, la corruzione che pervade ogni ambito sociale fino ai più alti livelli della magistratura, del governo e delle istituzioni  statali.

Il silenzio gravido di dolore e paura è negli occhi di chi vive un incubo ricorrente quotidiano. Che si materializza su un corpo mutilato nella spazzatura, su uno “sparato” sull’amaca mentre dormiva, su un altro seduto in sedia a rotelle, colpito da un proiettile vagante.

Continuano a lottare alcuni, altri si rassegnano a non uscire più di casa, tanto la vita vale veramente poco qui ad Acapulco.

“Quaranta pesos, un paio di dollari”, afferma padre Bolmaro Hérnandez della Iglesia del Sagrado Corazón, nel quartiere di Costa Azul. “È la cuota (tangente) che doveva pagare la venditrice di tortillas che hanno ammazzato la scorsa settimana di fronte alla mia chiesa”.

Alle spalle uno scenario da day after, con vecchi slogan impunturati su cartelli cadenti, alberghi stracciati con altrettanti stracciati prezzi per chi ancora si arrischia a varcarne la soglia, negozi chiusi stretti dalle mazzette impagabili.

Su tutto, il rutilante neon dei monumenti alla Coca-Cola, i bar promiscui e i ristoranti a buon mercato. Ogni cosa sembra rianimarsi soltanto nei fine settimana, condito dalla musica.

È come in qualche “folclorico” luogo abbastanza prossimo alla nostranità italiana, anche qui si ascoltano e sono gettonati gli stornelli che celebrano le gesta dei narcos, i narcocorridos.

E, guarda caso, come noi abbiamo l’Amaro del Capo, i messicani in questo luogo preferiscono il whisky Buchanan’s, quello bevuto dai narcos.

I giornalisti e le donne pagano… con la vita, a Ciudad Juarez.

Ciudad Juarez, nota sino a qualche tempo fa per le maquilas, fabbriche della globalizzazione di lavoro nero, che assemblano in conto terzi per le società multinazionali, prodotti per l’esportazione.

E per i femminicidi, dal 1973 al 2011, più di 400 vittime, giovani stuprate e torturate. Pochi i colpevoli e rare le condanne. Non è stato mai indagato fino in fondo il legame presunto tra i proprietari delle fabbriche (messicani e texani), il lavoro nero e le vittime.

Ciudad Juárez sul Rio Grande, in mezzo al deserto dello Stato di Chihuahua, attraverso cui transita l’80% della cocaina proveniente dalla Colombia destinata al mercato americano.

Dal 2008, al Diario de Juárez di questa città, Il cronista capo segna le vittime su una lavagna, sotto il monito “non cancellare”, e ogni fine mese saca la cuenta.

Nessuna chiusura reale è stata possibile della frontiera attraverso cui passa la droga dal Messico agli Stati Uniti, nonostante i militari presenti.

In compenso, donne e giornalisti tra i bersagli principali.

La troppa attenzione dei cronisti sull’anarchia criminale che regna in città li rende bersagli. Al Diario lo sanno bene per il prezzo pagato da Armando Rodríguez, cronista di nera che aveva firmato più di 900 pezzi e da Luis Carlos Santiago, fotografo fatto fuori in parcheggio.

Alla domanda:”Chi gli ha sparato?”, nessuna risposta da parte della polizia.

Alla droga, alla corruzione, agli effetti perversi della delocalizzazione, corrisponde una realtà urbana degradata come poche altre.

Lavori da schiavi, per padri e madri,  per due dollari all’ora, figli lasciati da soli che passano a sniffare dalla colla alla coca, che la trovi ovunque.

La trafila è in crescita per coltivarli come spacciatori e affiliati alle varie “santerie”. La polizia che arrotonda salari da fame proteggendo i boss. Su tutto una totale impunità. Perché si conclude meno del due per cento delle indagini.

Il sentire comune oggi teme di più il governo che i cartelli. Ogni corpo di polizia ed esercito ha il suo protetto: le truppe, i sinaloensi di El Chapo; gli agenti municipali sul libro paga degli eredi di Vicente Carrillo, ex signore della droga di Juárez.

In Messico 27mila desaparecidos.

Luz “Lucy” Del Carmen Sosa è stata una cronista di nera. “Non si può fare il giornalista se si ha paura”, detto senza retorica.

In Spagna nel 2010 ritirò il premio Manuel Vázquez Montalbán.

Si è difesa, si fa per dire, misurando i termini linguistici nei suoi pezzi: meglio “bande armate” che “cartelli”. Raccontare solo di fatti confermati dalle autorità. E non rivelare mai il perché o il come.

Di precisione giornalistica si muore, senza se e senza ma.

E si, perché all’indomani dell’assassinio del suo collega, Luis Carlos, il suo pezzo, uscito in città senza firma per evitare rappresaglie, fu ritrovato in seno ad un cadavere con mani mozzate sopra un’auto, parcheggiata sotto il giornale. Era l’edizione di un’altra città e quindi firmato.

Conciliabolo in redazione cui seguì la decisione di pubblicare in prima pagina una lettera aperta “alle differenti organizzazioni che lottano per il controllo della città” dal titolo forte: “Cosa volete da noi?”.

Si trattava di una richiesta lanciata per sapere se ci fossero regole del gioco, per decidere meglio quali rischi correre. Perché non si può censurare quello che accade, a costo anche della vita.

Papa Francesco nell’inferno messicano.

Bergoglio nel febbraio del 2016 si è trovato tra gli ultimi ancora una volta.

A Città del Messico. Tra i carcerati di Ciudad Juárez, tra i campesinos del Chiapas nella cattedrale di San Cristóbal de Las Casas e tra i santeros del Michoacán, cartello della Familia e infine a Ecatepec, una slum di Città del Messico.

Una conurbazione, quest’ultima, conosciuta come el cinturón de la pobreza (cintura della povertà), di almeno 6 milioni di messicani.

Nel canale che la contorna, il Río de los Remedios, si trova di tutto: anche cadaveri e ossa. L’esame del Dna viene richiesto a periti indipendenti, non ci si fida di quello che verbalizza la polizia.

Anche Città del Messico è nota per i femminicidi, come Ciudad Juarez.

Qui l’educazione patriarcale rende le donne soggetti-oggetti senza dignità di individuo. Nessuna punibilità, nessuna sanzione. E non sono solo gli uomini dei cartelli, ma anche i padri, i fratelli, la polizia, la magistratura.

Una madre, Guadalupe Gochi, ha incastrato l’assassino della figlia, Mario Enriques Perez, facendolo condannare per omicidio.

La manovalanza del futuro narcotraffico.

Qualcuno cerca di salvarsi, uscito dalla droga, Carlos Cruz, ex trafficante di armi e di documenti falsi, ha fondato nel 2000 Cauce Ciudadano, un’organizzazione no profit – associata a Libera di don Ciotti – che prova a sottrarre i giovani dal crimine organizzato.

La considerazione della più assoluta solitudine personale quando faceva quello che faceva ha avuto peso a dargli la spinta per cambiare.

I ragazzi lavorano già a 5 anni a coltivare papaveri per l’oppio; a 12 diventano halcones, sentinelle, e a 18 pozoleros, occultatori di cadaveri, e sicarios, assassini.

La violenza è figlia della mancanza di speranza, quando sai che i poteri locali sono coinvolti con quelli da cui dovrebbero proteggerti: “A Ecatepec il delegato del governo è notoriamente implicato con la Familia Michoacana. Ci sono politici e magistrati sul libro paga delle mafie. Ci sono poliziotti onesti che vengono ammazzati perché si rifiutano di collaborare e poliziotti che lavorano per i cartelli”, dice Carlos Cruz di Cauce Ciudadano.

Solo i bambini che cercano nelle discariche in città si sentono più al sicuro qui che altrove. Sono i pepenadores che, armati di uncini, rovistano attorniati dai cani affamati, per recuperare stracci, plastica, rottami da rivendere a pochi pesos.

Anche loro pagano la tangente alla mafia: 60 pesos al mese per la protezione da qualunque molestia.

È come dare l’obolo a Caron Dimonio, occhio di bragia per poter traghettare nella palude stigia.

Fonti

Mexiconewsdaily.com bodies thrown from plane over sinaloa

Mexican_Drug_War

Treccani.it messico

Cauce Ciudadano

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Repubblica.it reportage Acapulco il paradiso diventato un inferno

Lineadifrontiera.com ciudad juarez

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