Recensione dello spettacolo “Esodo – Racconto per voce, parole ed immagini” di Simone Cristicchi,in scena al Teatro Vittoria.

Simone Cristicchi narra, come un moderno Omero, una storia di sofferenza e nostalgia. Lo fa nella penombra delle luci, in un volto mai pienamente illuminato, in cui le parole diventano protagoniste e l’attore solo parvenza di immagine.

Lo spettacolo “Esodo – Racconto per voce, parole ed immagini” in scena al Teatro Vittoria fino all’8 marzo, accoglie lo spettatore con la voce di chi afferma ed è consapevole che la sua storia è caduta nell’oblio del silenzio e il ricordo è svanito tra le pieghe del presente.

Entra in scena Simone Cristicchi, ha una valigia di cartone con sé e ci racconta una storia, la tragica vicenda degli esodati dall’Istria e della fascia costiera. Persone senza una casa, un’identità, estranei nella loro stessa nazione.

È necessario, per Cristicchi, raccontare la vicenda storica, per comprendere l’esodo giuliano dalmata. Lo fa attraversando la Prima e la Seconda Guerra Mondiale fino a giungere all’atto finale: la concessione dell’Istria, della Dalmazia e di Fiume alla Jugoslavia. È il prezzo da pagare per l’Italia, in quanto uscita sconfitta dalla guerra. Nel frangente, tuttavia, vi è stata la brutalità, la violenza, gli attentati e le foibe.

La gente, con l’avvento della dittatura comunista di Tito, è costretta a fuggire via: non solo italiani (la grande maggioranza) ma anche slavi e croati che non volevano vivere sotto il suo regime.

Per Tito era importante che gli italiani andassero via e per farlo fu disposto a tutto.

“Indurli ad andare via con pressioni di ogni genere”.

Cristicchi ci racconta di Norma, giovane ragazza prossima alla laurea, brutalizzata, violentata da 17 uomini e gettata nella foiba, di Domenico, 27 anni, anch’esso nella foiba, del dottor Micheletti che continuò a lavorare per 24 ore dopo l’assassinio dei suoi due figli nell’attentato del 18 agosto del 46 a Vergarolla.

Accompagna le sue parole, Cristicchi, con la musica di una chitarra e con la proiezione di video e fotografie.

Nel 1947 ha inizio l’esodo. Il rumore dei martelli, che battono ripetutamente per imballare nei cassoni un’intera esistenza è il rumore dell’esodo. Da Pola, sotto gli sguardi indifferenti del mondo, tutti partono, anche i partigiani.

La motonave “Toscana” diverrà il simbolo di quella partenza ed il 20 marzo del 1947 effettuerà il suo ultimo viaggio.

L’accoglienza in Italia sarà crudele; apostrofati come carnefici e approfittatori verranno portati nei campi profughi. Quei 300 mila esodati troveranno la fama, l’ostilità e il gelo. Il gelo dell’anima e delle ossa, il gelo che condurrà alla morte di una bambina, Marinella, a 16° sottozero.

Simone Cristicchi riporta in vita il ricordo, la memoria storica di italiani che hanno vissuto con dignità e in silenzio il loro dolore e la loro nostalgia.

La nostalgia di casa, della propria terra e della propria identità. Esistenze che si possono “guardare” al Porto Vecchio di Trieste, nel Magazzino n.18: i ricordi degli esodati, senza alcun posto in cui lasciare i propri beni, sono lì, nella polvere che accarezza gli oggetti ma non li copre, a ricordarci che la memoria non può scomparire.

Cristicchi, di quel Magazzino n.18, ne ha fatto anche una canzone, contenuta in “Album di famiglia” del 2003 e fatta ascoltare agli spettatori.

Sergio Endrigo, uno degli esodati, nella canzone “1947” esprime quella malinconia; brano che Cristicchi riporta in scena, regalando riflessione e commozione.

La storia insegna, la storia si ripete e la storia non si deve dimenticare.

“Esodo” è uno spettacolo necessario, essenziale e assolutamente da vedere. Non serve alcuna scenografia o luce perché la potenza delle parole sovrasta ogni “estetismo”.

Da quella volta
non l’ho rivista più,
cosa sarà
della mia città.

Ho visto il mondo
e mi domando se
sarei lo stesso
se fossi ancora là.

Non so perché
stasera penso a te,
strada fiorita
della gioventù.

Come vorrei
essere un albero, che sa
dove nasce
e dove morirà.

È troppo tardi
per ritornare ormai,
nessuno più
mi riconoscerà.

La sera è un sogno
che non si avvera mai,
essere un altro
e, invece, sono io.
Da quella volta
non ti ho trovato più,
strada fiorita
della gioventù.

Come vorrei
essere un albero, che sa
dove nasce
e dove morirà.

Come vorrei
essere un albero, che sa
dove nasce
e dove morirà!

(Sergio Endrigo – 1947)

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