“Russofobia. Mille anni di diffidenza”: il nuovo saggio di Guy Mettan
Attraverso la sua esperienza di giornalista, e a seguito della crisi ucraina del 2014, Guy Mettan ha deciso di studiare il fenomeno della russofobia nella storia e nelle sue manifestazioni odierne.
Come scrive lui stesso nell’introduzione al suo saggio Russofobia. Mille anni di diffidenza, edito nel 2016 da Sandro Teti Editore, Mettan ha sperimentato sulla propria pelle il «doppio standard che la stampa e i politici occidentali applicano quando esprimono un giudizio sui paesi o sui regimi politici che non amano».
Il suo volume è diviso in tre parti: nella prima vengono mostrati tutti i casi di cronaca politica in cui la Russia è stata vittima di un giornalismo occidentale quasi di propaganda, nettamente schierato dalla parte dell’oppositore di turno della federazione, dai terroristi separatisti ceceni ai combattenti filo – ucraini.
Così, quando nel 2008 è scoppiata la crisi tra Russia e Georgia, gli Stati Uniti e la Nato non hanno esitato ad appoggiare il presidente georgiano Saak’ashvili, e, senza esaminare lucidamente i fatti, hanno accusato a priori la Russia di aver precipitato la crisi invadendo con l’esercito un corridoio di terra nell’Ossezia del Sud.
Ancora, subito dopo l’attentato a Beslan nel settembre 2004 in cui sono morte più di trecento persone, tra cui tantissimi bambini, la stampa occidentale è stata ben accorta a mostrare cordoglio solo fino a un certo punto, cogliendo invece l’occasione per rimproverare al governo Putin la gestione dell’attentato e in generale il trattamento riservato alla Cecenia, chiedendo di concedere più libertà ai separatisti. Una proposta, dice Mettan, che avrebbe fatto inorridire se posta dalla Russia agli Stati Uniti dopo l’attentato alle Torri Gemelle.
L’ultimo esempio in ordine di tempo è quello dello scoppio della crisi ucraina nel 2014: oltre alle ipotesi di Mettan (sostenute da prove) secondo cui la Nato avrebbe aiutato a rovesciare il governo ucraino legittimo, è certo che da allora la stampa non ha smesso mai di denunciare gli orrori compiuti dall’esercito russo a danno dei ribelli, senza considerare mai che in una guerra gli orrori si compiono sempre da una parte e dall’altra. Ad esempio, nessuno si è incomodato di parlare del massacro di quaranta militari russi morti nell’incendio doloso del Palazzo dei Sindacati di Odessa il 2 maggio 2014, probabilmente perché a nessuno faceva comodo addossare una colpa a rivoltosi ucraini desiderosi di entrare in Unione Europea.
Questa guerra mediatica alla Russia ha precise connotazioni linguistiche, ed è talmente palese che negli Stati Uniti da tempo esistono cattedre che si occupano di Russofobia, mentre l’Unione Europea è più cauta sia sul versante giornalistico, sia a livello di risoluzioni politiche.
La seconda parte del saggio si occupa di sondare le radici storiche della russofobia, radici antiche e molto profonde, tanto che ormai è quasi impossibile sradicarle. Le prime divisioni e conseguenti pregiudizi furono di natura religiosa, e le motivazioni oggi sembrano quasi sciocche: l’adozione da parte di Carlo Magno prima, del Papa poi, di una diversa formula del Credo e di un modo diverso di fare il Segno della Croce hanno portato, nel tempo, al Grande Scisma d’Oriente, cioè alla divisione della chiesa cristiana in cattolica e ortodossa.
A partire da quel momento, nell’Occidente cristiano è maturato un complesso di superiorità nei confronti dell’Eurasia ortodossa, i cui riflessi possono sentirsi ancora oggi quando utilizziamo l’aggettivo “bizantino”, con la sua leggera sfumatura dispregiativa, per indicare tutto ciò che di “orientale”, cioè di dispotico, di violento e di barbaro c’è nel mondo.
In effetti nei resoconti dei viaggiatori europei di ogni epoca c’è questa percezione del russo come barbaro, asservito al suo imperatore, schiavo della propria terra e terribilmente in ritardo rispetto all’Europa. Questo perché, a differenza della Cina o del Giappone, la Russia è sempre stata lontana e vicina all’Europa, una sorta di specchio che rimanda l’immagine distorta di un’Europa non perfettamente Europa, e questo per gli occidentali è stato ed è molto difficile da comprendere.
Per questo Francia, Inghilterra, Germania e, a partire dal ‘900, Stati Uniti hanno sviluppato una loro versione della russofobia, che a seconda dei casi si è appoggiata a questioni filosofiche civilizzatrici (come nel caso della Francia illuminista o della Germania romantica col suo culto per l’elemento germanico), a problemi di natura imperialista (come per il Grande Gioco che nel XIX secolo ha visto coinvolti gli imperi britannico e russo) o economica-ideologica (è il caso degli Stati Uniti).
E se nel passato ci si è nascosti dietro alla lotta al comunismo e agli orrori di Stalin, come oggi si accusa Putin di ogni male nel mondo, la realtà che tutto concorre alla creazione di una sovrastoria russa, del mito dell’orso russo che vuole divorare le nazioni confinanti, arrivare in Europa e lì imporre il suo dispotismo.
Questo è l’argomento della terza e ultima parte del libro: come si costruisce l’immagine della Russia da parte degli occidentali sfruttando tutte le forze del soft power, del potere della persuasione: giornalismo, discorsi pubblici di presidenti e ministri, un linguaggio solo apparentemente diplomatico e che invece si fonda su un doppio registro che contrappone noi a loro, lettere di appello di capi europei e sanzioni.
Perché
“rinnovando e rimodellando senza sosta il proprio discorso antirusso, l’Occidente mette in risalto se stesso, prende sicurezza e rinforza l’alta opinione che ha di sé, facendo calare l’autostima dell’altro. […] A entrare in azione è sempre lo stesso riflesso, che consiste nel sospettare, criticare, accusare la Russia. Esso ha una storia, delle cause, dei meccanismi di funzionamento e di potenziamento.”