Testimoni di giustizia. Rifletto dunque sono. Ai margini di una domanda ne sorgono sempre altre.
Il padre di una ragazza stuprata ed uccisa osservò: “Non ti ho mai vista al Centro Roberta Lanzino!”.
“Non ci sono stata prima che accadesse qualcosa a Roberta!”
Ma la domanda che, a distanza di tanto tempo, mi è fiorita sulle labbra ora è: Dov’ero?
Tran tran di una vita.
Occupata nelle piccole cose di ogni giorno. Lavoro, hobbie, impegno intellettuale, problemi familiari, disagi esistenziali.
Profondamente colpita, sì, da questo omicidio e da altri lutti che cadevano su altri.
Comune esperienza?
Lutti forse vissuti come non miei, non personali? Comunque, lutti che hanno smosso la mia indignazione, la mia rabbia, la mia impotenza; lutti che, comunque non mi hanno spinta all’azione concreta.
E la riflessione si è fatta più amara, più profonda. Di fronte a Rosetta, a Rita, a Falcone e Francesca e Borsellino e tutti gli uomini-ragazzi delle scorte di ieri e di oggi. Loro c’erano. Io dov’ero?
Coscienza civile, coscienza personale.
I libri mi hanno coinvolto. Testi scovati sulla mafia, nella mia libreria, impolverati dall’oblio. Ho fatto un lavoro di autocritica, di presa di coscienza (civile = personale!).
E la riflessione si è fatta acuta. E la curiosità di saperne di più su questo fronte, sopita per alcuni anni, dov’era?
Come se avessi avuto responsabilità solo della mia vita e questa potesse significare unicamente risolvere gli incagli della mia personalità, la mia curiosità trovava sempre una ragione nel domani successivo, in quel domani che poi trovava ragioni per occuparsi di altre cose.
Sopore di coscienza?
Non la chiamo indifferenza, perché non l’ho sentita così. Era soltanto un “non considerare” l’esistenza di un’altra angolazione così vicina eppure così difficile da percepire, quando ti chiudi all’interno del tuo mondo, fatto delle cose che ti appartengono, delle cose-casa, dei tuoi punti di riferimento e ti sembra che i messaggi esterni, provenienti da altre isole umane, siano intrisi di non vicinanza = non appartenenza.
Processo di coscienza.
Poi cominci, un giorno lontano dall’oggi, ad elaborare le tue esperienze, analizzi la tua vita attraverso la doppia lente della memoria e dell’oblio e quello che sembra solo un discorso antropologico buono per una tesi, avverti che ti rimanda a guardare alle cose concrete, a ciò che ti accade intorno e ti rendi conto che la tua esistenza chiusa si può comunicare, anzi che è necessario comunicarla perché ne resti traccia.
Rielaborazione.
Solo allora ti accorgi di esserti svegliata, quando quello che pensavi esistere solo come un tuo valore solitario, esistere per amare ed essere amata, è un valore che hai coltivato senza sapere che altre donne l’hanno coltivato insieme a te, ma separatamente, tu da loro e loro da te.
Presa di coscienza.
Bene, quando leggi che Rita Atria si è uccisa perché le hanno tolto il diritto di amare e di essere amata, dal suo ragazzo e non solo, dalla stessa madre che non la riconosceva più come figlia, e finanche da un giudice (leggi, Borsellino!), che viene colpito anche perché di quella possibilità si era fatto tramite verso di lei!
Quando comprendi che donne, figlie di un sostrato mafioso ma che hanno alzato la testa e denunciato, vivono lontane, separate da ciò che sono, rimaste prive delle cose semplici delle proprie giornate, ti sembra che il grido di Primo Levi: – Nulla ci è rimasto…se parleremo non ci ascolteranno e se ci ascoltassero, non ci capirebbero-, si faccia vivo, concreto e renda, in modo terribile, ravvicinabili le due esperienze, pur così lontane.
Il tratto unificante delle deportazioni e delle latitanze forzate di queste donne si dà soltanto nella avvicinabilità di quel fattore di base che è la passione per la morte, manovrata, gestita, agita, pensata e voluta, nel caso su cui stiamo riflettendo, dalla mafia e dalla “connivente silenziosità” di uno stato miope o strabico.
I corpi di donna negati, Lea Garofalo e Maria Concetta Cacciola, diffidati ad “essere”, Denise Garofalo, nascosti come Giuseppina Pesce. e mille altre, esposti come Angela Casella e mille altre che non hanno gli onori di una “informazione”, spesse volte “male informata”, Piera Aiello, Valeria Grasso, Carmelina Prisco, sono corpi di un pensiero di donna che spinge a vivere e a ricordare, in faccia alla nebbia che vorrebbe avvolgere di Nulla Assoluto il nostro regno di Fantasia!
Conclusioni.
Un ultimo monito a noi, “esseri liberi”, lo raccolgo ancora nelle parole di Primo Levi: – Che siamo schiavi, privi di ogni diritto, esposti ad ogni offesa, votati a morte quasi certa, ma che una facoltà c’è rimasta, e dobbiamo difenderla con ogni vigore perché l’ultima: la facoltà di negare il nostro consenso -.
Le modalità di negazione del nostro consenso alla mafia/ morte/ sangue/nero, sono la parola, il grido, la denuncia.
L’ipocrisia della mafia buona colludeva e collude con la colpevole negazione della mafia e, sul terreno del silenzio, il pragmatismo mafioso ha prosperato e prospera, anche del silenzio delle donne dei mafiosi.
Il riconoscersi come donne e uomini di… “se stessi” (ossia che si appartengono), riempie quel silenzio con le parole della Vita contro la Morte.
Fonti:
il caso della testimone di giustizia, Rosetta Cerminara
Secrets of Life and Death: Women and the Mafia, Renate Siebert
Testimoni di giustizia, Presa Diretta 20.01.2014 (è necessaria la registrazione)
Vite devastate di testimoni di giustizia
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