Tommy Kuti: “dai una chance ai tuoi sogni e ai tuoi obiettivi” – INTERVISTA

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Tommy Kuti ©Karim_El_Maktafi

Tommy Kuti ©Karim_El_Maktafi

Tommy Kuti è un’artista poliedrico, un appassionato dell’arte in tutte le sue molteplici forme, un musicista che sente la responsabilità e il peso delle parole e che riesce a metterle in connessione con una musica energica, potente, tra cultura nigeriana e italiana.

“Big Boy” è il suo ultimo singolo, prodotto da Freecom Hub. Un brano autobiografico che racconta il percorso di un giovane afroitaliano, le sconfitte e i successi che lo conducono da un contesto marginale e precario a una carriera indipendente. Attraverso esperienze personali e culturali, Tommy Kuti celebra l’emancipazione e la determinazione nel superare le difficoltà. Il testo traccia il cammino di crescita dell’artista, mettendo in evidenza l’importanza dell’autodeterminazione e della resilienza.

Con riferimenti alle culture nigeriana e italiana, “Big Boy” diventa un autentico inno all’identità afroitaliana e alla conquista di uno spazio significativo nella società.

Intervista a Tommy Kuti a cura di Miriam Bocchino

  • Buonasera Tommy. “Big Boy” è il tuo ultimo singolo, disponibile dal 21 marzo: mi racconti come nasce?

La versione che sentite è solo la ventottesima della canzone (risata). È nata per gioco: sento una base, scrivo, metto giù delle idee. Ho avuto una lotta infinita con i miei produttori perché per loro la canzone era bella da ballare e non doveva avere un testo profondo, mentre per me era necessario raccontare. È stato un viaggio riuscire ad assecondare una canzone che doveva essere così energica, potente, pronta ad essere ballata, con l’idea di raccontare un pezzo della mia vita. Volevo celebrare i 10 anni che lavoro per me stesso e comunicare questo messaggio: credi nei tuoi sogni e almeno dai una chance ai tuoi sogni e ai tuoi obiettivi.

  • Come hai compreso che finalmente era arrivata la versione giusta?

Me l’hanno fatto capire i miei amici, che mi hanno detto ‘Tommy mi hai rotto le palle’ (risata) perché a molte persone ho fatto sentire almeno dieci versioni del brano. Poi a me piace confrontarmi con il team di persone con il quale lavoro, mettere insieme i loro commenti, le loro critiche e analizzarli. Quindi cosa ho fatto? Ho lasciato il brano in bagnomaria e dopo un po’ di mesi l’ho ripreso con le ‘orecchie fresche’ e ho ultimato la versione finale.

  • Nel brano racconti ciò che è stata la tua “emancipazione e determinazione per superare le avversità”. Personalmente quanto è stato complesso all’inizio della carriera riuscire a farsi sentire?

Le difficoltà più grandi sono legate al fatto che quando ho cominciato il mio percorso artistico, più di 15 anni fa, sognare di diventare rapper non era affatto normale, il rap non era così in voga. La più grande lotta è stata far capire alle persone che questo genere musicale  è un’arte a tutti gli effetti perché spesso e volentieri veniva snobbata, cosa che accade ancora adesso, vedi Sanremo.

  • Sanremo: hai mai pensato di parteciparvi o è totalmente distante da te?

Onesto? Sono cresciuto pensando che Sanremo fosse la cosa più lontana da me, però in realtà sentendo alcuni brani quest’anno mi sono detto ‘ma sì, si può fare’. Penso, ad esempio, a Willie Peyote che è riuscito a portare il suo brano di denuncia senza snaturarsi o a Shablo, Guè e Tormento.

  • Sei nato a Castiglione delle Stiviere e su Instagram hai scritto che tornare nel posto in cui sei cresciuto ti dà ispirazione e ti ricorda chi sei, quindi: chi è Tommy?

Sono un artista. Mi piace esprimermi sotto forma di mille versioni d’arte, principalmente la musica, però ho anche recitato, scritto un libro, organizzo eventi, aiuto altri artisti a scrivere canzoni. In generale scrivo ed è scioccante, contro ogni pronostico, perché mi ricordo che il mio professore in quinta superiore mi ha detto ‘Tommy tu sei negato a scrivere, non pensare mai di farlo per lavoro’, ci aveva davvero visto lungo (risata). Il mio lavoro quotidianamente è scrivere.

  • Hai conseguito la laurea triennale a Cambridge: è sempre stato nei tuoi piano l’intento di rientrare in Italia?

Da stupido incosciente, dopo aver studiato e aver vissuto là, mi sono detto ‘vengo in Italia a lavorare, a realizzare i miei obiettivi’. Credevo che ci fossero opportunità lavorative dopo aver studiato all’estero, però purtroppo a livello lavorativo non sono stato proprio abbracciato da questo Paese, non come sono stato abbracciato dal mondo dello spettacolo. Quindi sì, inizialmente sono tornato in Italia perché volevo lavorare nel campo della comunicazione ma non ho avuto per nulla fortuna e, dopo essere stato licenziato dal mio ultimo lavoro, ho deciso di dedicarmi principalmente alla musica.

  • Su Instagram hai parlato della mafia delle playlist: mi spieghi meglio il tuo pensiero a riguardo?

Una cosa che è inevitabile è questa: se sei dentro una major hai accesso a un universo di strumenti di promozione che da indipendente è difficile da raggiungere. Le playlist più grosse in realtà sono connessioni tra Spotify e accordi con le major, quindi in Italia il divario tra artista indipendente e artista nella major si sta facendo sempre più grande e questo è un dato di fatto. Lo dico perché anch’io sono stato in una major e ricordo che potevo dire ‘ehi raga è uscito il mio pezzo, mettetelo in questa e quest’altra playlist’. Questo, chiaramente, è un discorso che un artista indipendente non può fare in nessun modo. La domanda, quindi, è: il disco d’oro lo ha ottenuto l’artista o le playlist? I numeri prendano il sopravvento sull’arte.

  • Sei arrivato in Italia all’età di due anni dalla Nigeria: come sei riuscito a mantenere il contatto con la tua terra natia?

In famiglia siamo cinque fratelli, io sono l’unico che parla perfettamente la nostra lingua madre e quello più connesso con la nostra cultura. Perché? I miei genitori avevano un negozio etnico e sin da bambino sono sempre stato costretto a stare lì. Quando ero piccolo odiavo i miei genitori perché non mi facevano andare a giocare con i miei amici, ma in realtà mi ha aiutato. Mi ha aiutato in primis a essere in contatto con la mia cultura, perché la maggior parte delle persone che venivano in  negozio erano del mio Paese e poi mi ha aiutato a gestire i soldi, che non è una cosa da poco in quanto da artista indipendente gestisco tutto da solo. Ho, anche, imparato a parlare il pidgin english che è un dialetto popolare del mio Paese.

  • Qual è il tuo primo ricordo legato alla musica? Fa parte della tua famiglia?

La musica fa parte della nostra vita. Ricordo che quando ero piccolo, all’età di sei anni, mio papà che aveva ventisette anni faceva sempre delle mega feste con gli amici. Ricordo, anche, che in macchina spesso aveva la musica di Fela Kuti e poi la chiesa, il coro. Nella nostra cultura, in generale, penso che ci siano più occasioni per gustarsi la musica. Spesso si sente dire ‘i neri hanno la musica nel sangue’: io penso che più che altro è un fatto culturale, in quanto ci sono più occasioni per viversi la musica rispetto a una persona italiana. Ad esempio, se i miei genitori fanno una festa in casa la musica è l’aspetto più importante: sin da piccolo ricordo che in casa mia c’è sempre stato un mega impianto audio per la musica.

  • Qual è la tua personale opinione sulla società di oggi? Si parla molto di violenza, pregiudizio e omertà: che visione hai tu del futuro?

Ultimamente un concetto che ho spesso in mente è quello di bolla. Cosa intendo? Io credo che siamo tutti nella nostra bolla e che piano piano questo diventi pericoloso. Se io penso alla mia bolla, alla mia vita a Milano fatta di artisti, persone con una mentalità piuttosto aperta – mi piace sempre dire che nella mia quotidianità non entra l’italiano medio – va tutto bene. La mia bolla è vagamente inclusiva, non ci sono così tante persone omofobe o razziste, però mi rendo conto che è la mia bolla e non è così grande.

Credo che il concetto di bolla manca un po’ alla sinistra perché molte persone attiviste, impegnate socialmente, vivono nella loro bolla e si sentono superiori, non percependo la necessità di interagire con le persone che, secondo loro, sono a un livello intellettuale inferiore. La conseguenza? Viviamo in una società in cui persone come Trump prendono il sopravvento perché la loro bolla, anche se non ne facciamo parte, è diventata grande a dismisura. Spero in un mondo in cui queste bolle tornino a comunicare.

  • Quali i progetti futuri?

Sto lavorando a un sacco di progetti. Spero che quest’estate esca un EP, sto aiutando come autore altri artisti a scrivere le loro canzoni, e poi il cinema con una nuova serie televisiva.

Tommy Kuti

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