Trump riconosce Gerusalemme capitale d’Israele. Il perché del conflitto.

Tensioni e conflitti sembrano non avere mai fine nel lontano Medio Oriente. 

Lo scorso 8 dicembre il Presidente americano Donald Trump ha deciso di riconoscere ufficialmente Gerusalemme capitale dello Stato d’Israele. “È il momento di riconoscere Gerusalemme capitale di Israele”, ha dichiarato Trump ed ha aggiunto: “Non si può continuare con formule fallimentari. La scelta di oggi su Gerusalemme è necessaria per la pace”. The Donald ha ribadito che Gerusalemme è la sede del governo israeliano ed ha annunciato di aver già ordinato il trasferimento della sede dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme.

Durante la campagna elettorale, Donald Trump aveva già promesso che, se fosse stato eletto, avrebbe formalmente riconosciuto Gerusalemme capitale d’Israele. Una promessa non nuova nell’ala repubblicana, ma sino ad ora mai rispettata da nessun Presidente eletto. Dal giorno dell’insediamento alla Casa Bianca, Trump ha deciso di passare dalle parole ai fatti, aggravando così l’instabilità di una delle aree geo–politicamente più pericolose del mondo.

Presagi di guerra.

Le proteste in Cisgiordania e nella striscia di Gaza e i raid israeliani, durante i quali sono stati uccisi due palestinesi, sono testimonianze concrete degli effetti provocati dalla dichiarazione di Donald Trump. Il riconoscimento di Gerusalemme come capitale dello Stato d’Israele da parte degli Stati Uniti è stato pienamente condiviso dal Premier Netanyahu che, per l’occasione, ha tenuto un discorso dinanzi alla nazione.

Si alza il livello dello scontro tra Palestina e Israele. E tra Hamas, che ha immediatamente rivolto un accorato appello al popolo palestinese per una “nuova Intifada” e la destra nazionalista israeliana.

Il conflitto tra Israele e Palestina è, da più di cinquanta anni, al centro dell’attenzione della comunità internazionale. Fallito ogni tentativo di risoluzione pacifica, imposto ora dagli Stati Uniti ora dall’Europa – la quale si è dichiarata contraria alla scelta del presidente americano ed ha ribadito la necessità che si lavori per la nascita di due Stati – è evidente che non possono avere successo soluzioni, che non siano pienamente condivise da israeliani e palestinesi. Ed oggi la pace appare nitidamente un miraggio.

Ma perché la guerra?

Era il 14 maggio 1948, quando è stata dichiarata l’indipendenza d’Israele. Dopo la tragedia dell’Olocausto, il movimento sionista aveva finalmente ottenuto la nascita di uno Stato sovrano, che coincidesse con la terra promessa da Dio al popolo d’Israele, sin dai tempi della fuga dall’Egitto.

Il conflitto arabo – israeliano, che poggia oggi su forti motivazioni religiose è piuttosto il prodotto del processo di decolonizzazione, attuato sia dalla Gran Bretagna che dagli Stati Uniti.

Nel 1914 i territori palestinesi, poveri, privi di risorse e prevalentemente agricoli, erano parte dell’Impero Ottomano. Quando quest’ultimo cadde definitivamente, conclusasi la Prima guerra mondiale, l’attuale area israelo-palestinese passò sotto il controllo dei francesi e degli inglesi. I territori palestinesi divennero protettorato inglese.

Nel 1915, le potenze alleate decisero di promettere l’indipendenza ai grandi proprietari terrieri arabi in cambio dell’appoggio alla guerra contro l’Impero Ottomano. Nel frattempo, l’ondata sionista premeva perché la comunità internazionale permettesse la nascita dello Stato d’Israele, osteggiata dagli altri paesi arabi dell’area medio orientale. Soltanto nel 1917 l’Inghilterra decise di appoggiare la nascita d’Israele.

La spartizione del Medio Oriente in aree di influenza, il controllo britannico della Palestina, verso la quale fu limitato l’ingresso degli israeliani, sono tra le principali cause del conflitto etnico.

Nel 1945 gli arabi erano saliti a 1 milione e 240 mila, mentre gli ebrei erano 553 mila. E Gerusalemme era l’unico centro urbano importante.

Dalla nascita dello Stato d’Israele, i governi hanno perseguito con ostinazione l’occupazione dei territori palestinesi e progetti di colonizzazione forzata della striscia di Gaza, della Cisgiordania e delle alture del Golan, dove si combatte ancora la guerra e risiedono oggi più di un milione e mezzo di palestinesi.

Dagli inizi degli anni Cinquanta sino ai nostri giorni, si sono susseguiti violenti scontri che hanno costretto migliaia di palestinesi in fuga – per trovare rifugio nei campi profughi – e altrettanti israeliani – tra i quali moltissimi giovani – a morire sui campi di battaglia.

E la pace promessa da Trump? I prossimi saranno dunque giorni cruciali in un territorio a lungo martoriato dall’odio e dalla guerra. Di religioni, di etnie, di interessi politici.

Chiara Colangelo

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