“Il corsivo è mio” – La biografia di Nina Berberova

Nina Berberova, autrice di poesie e di romanzi, ha narrato la sua interessante sebbene difficile vita nella sua autobiografia.

Fra le tre possibilità: vivere per la vita futura, vivere per le generazioni future e vivere per il momento presente, io ho scelto molto presto la terza, la “crudele immanenza”, per dirla con Herzen. È una di quelle decisioni che sono arrivate al momento giusto. In molte cose, ma assolutamente non in tutte, ho avuto uno sviluppo precoce, però ho imparato a pensare relativamente tardi, e troppo spesso sono rimasta indietro, perdendo tempo prezioso: quella base unica di vita, quel suo ordito che non si può né comperare, né scambiare, né rubare, né contraffare, né interpretare.

Nina Berberova non è sicuramente tra le autrici più conosciute in Italia, eppure la sua voce è stata una delle più autorevoli dell’emigrazione russa di inizio ‘900: la sua autobiografia Il corsivo è mio, scritta nel 1969, narra la sua vita di incontri, di partenze, di piccole e grandi difficoltà, intrecciandosi con le esistenze degli altri intellettuali russi che, prima in Germania, poi a Parigi e infine negli Stati Uniti (con una sosta a Sorrento e a Venezia), hanno popolato l’Europa tra le due guerre e hanno condiviso con lei il dramma dell’esilio o dell’emigrazione.

Nata a Pietroburgo in un’ambiente borghese all’inizio del secolo, Nina Berberova cresce in una famiglia eclettica e molto differenziata: con un padre di origine armena e una madre ancorata a una visione del mondo tradizionale e angusta, l’autrice gode fin da bambina dei privilegi di questo miscuglio e di molta libertà intellettuale.

Già da giovanissima si appassiona al mondo della letteratura, lei stessa componendo versi, e questo amore sarà la sua salvezza negli anni della Rivoluzione e poi dell’emigrazione, fortificandola nell’affermazione della sua autocoscienza (a cui lei stessa fa spesso riferimento nelle pagine del libro) e permettendole di conoscere le personalità più interessanti della sua epoca, nonché il suo primo marito, il poeta Vladislav Chodasevič, la cui memoria è viva nel libro.

Proprio con suo marito decide di emigrare dalla Russia, per salvare se stessa e lui, dopo aver assistito alle prime morti nel mondo della letteratura (nel 1921 morirono Blok e Gumilёv). A partire da questo momento, la Berberova introduce il lettore in un mondo magico, popolato dall’intellettualità che costituiva la Russia esule, che l’autrice ritrae con un grande senso del dovere storico, con il criterio dell’oggettività, ma ponendo in risalto i tratti più personali degli uomini con i quali viene a contatto: così descrive Gor’kij, lo scrittore simbolo dell’Unione Sovietica, non nella sua attività letteraria ma come uomo, un uomo fatto di passioni, dotato di una grande benevolenza; il premio Nobel Bunin ci appare invece come un borioso, concentrato solo su se stesso, che piano piano allontana da sé gli altri esuli; il poeta simbolista Andrej Belyj è dipinto come un uomo disperato ai limiti della follia.

Negli occhi di tutta la folla di intellettuali e uomini politici che popola il libro – come Kerenski, a capo del governo provvisorio russo nel 1917 prima dell’arrivo dei bolscevichi – si scorge la Russia: la maggior parte dei poeti e degli scrittori esuli vivranno l’abbandono del proprio Paese come un vero e proprio trauma esistenziale, che metterà a tacere la loro ispirazione, o che li spingerà a scendere a compromessi con il potere sovietico e a tornare indietro in URSS, con tragiche conseguenze. Questo sarà il destino di Marina Cvetaeva, di Belyj, di Gor’kij.

Ma anche tra chi resta a Parigi e guarda alla vita presente senza rimpianti, la Russia continua a vivere, come nel filosofo Dmitrij Merežkovskij che continua a chiedere alla moglie «è meglio la Russia senza libertà o la libertà senza la Russia?».

Tra tutte queste persone, per molti aspetti più conosciute di lei, spicca la voce di Nina Berberova, che a volte può risultare parziale nei suoi giudizi, ma che sicuramente offre un affresco preciso a quella parte della Russia che ha rischiato di rimanere senza voce.

La sua autobiografia, inoltre, è la biografia della sua coscienza di essere umano, la storia del suo equilibrio interiore e della sua forza, che è stata temprata dalle difficoltà e che le ha permesso una vita dignitosa negli Stati Uniti. Questa forse è la lezione più importante che l’autrice ha appreso dalla letteratura russa, come lei stessa dimostra ogni volta che cita il nome di Dostoevskij.

Maria Chiara DAgostino

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