Gli effetti del colonialismo: il genocidio degli Aborigeni australiani.

Ogni volta che si pensa al termine ‘genocidio’ l’associazione più frequente che viene fatta è quella relativa allo sterminio del popolo ebraico perpetrato dal nazismo durante la Seconda Guerra Mondiale. Purtroppo, questo triste evento del ventesimo secolo non è un episodio isolato; un altro grave fatto decisamente meno conosciuto in Occidente si è verificato nel medesimo periodo a causa dell’ingordigia e della smania di possesso dei colonizzatori inglesi. Si tratta del genocidio degli Aborigeni australiani.

Tutto ha inizio nel 1770, quando l’esploratore James Cook sbarcò a Botany Bay, nei pressi dell’odierna Sydney, e occupò tutta la costa orientale australiana in nome della corona britannica. Successivamente, a causa della guerra d’indipendenza, gli inglesi persero il loro dominio sul continente americano e decisero di focalizzarsi sull’Australia, stabilendo ufficialmente la loro prima colonia penale nel New South Wales. Era il 1788 e questo territorio sconfinato e popolato da numerose e diverse etnie venne ritenuto colonizzabile dalla Gran Bretagna in quanto «Terra Nullius», ossia inabitato. Questo perché gli Aborigeni, non essendo presente nella loro cultura il concetto di proprietà terriera bensì quello di appartenenza dell’individuo alla terra d’origine, erano ritenuti talmente primitivi e ingenui da non costituire un problema per i colonizzatori. A partire da questo momento iniziò una serie di guerre e massacri che portò alla drastica diminuzione della popolazione locale. Oltre a ciò, la diffusione di numerose malattie europee come il morbillo, la varicella e il vaiolo peggiorò ulteriormente questa già precaria situazione. Come se non bastasse, il governo britannico mise in atto alcune politiche con l’apparente scopo di integrare e civilizzare il popolo aborigeno ma in realtà attuate per la sua totale assimilazione nella razza bianca, cancellandola in questo modo dal continente australiano.

Il fenomeno più cruciale avvenuto in questo increscioso periodo è quello delle Stolen generations (Generazioni rubate), ossia dell’allontanamento forzato dei bambini di razza mista dalle loro famiglie, del loro confinamento in apposite strutture rieducative per l’apprendimento della lingua e dei costumi britannici e del loro successivo impiego come servi per le famiglie dei colonizzatori. Tale pratica, avviata alla fine del XIX secolo con l’Aboriginal Protection Act nel 1869 e terminata solo negli anni settanta, fu ampiamente utilizzata in Australia e rappresentò un vero e proprio trauma per queste generazioni. Questi bambini non solo furono costretti ad abbandonare il loro nucleo familiare e il loro territorio ma anche all’integrazione forzata nella cultura di dominanza, dimenticando di conseguenza la loro lingua e le loro origini.

Fortunatamente, negli ultimi decenni del XX secolo, qualcosa ha cominciato a cambiare : a partire da un processo di ‘riconciliazione’ ancora in corso, si sono verificati una serie di eventi che hanno contribuito allo stabilimento di un dialogo tra le due parti. Tre, in particolare, sono i fatti più significativi: il primo è avvenuto il 26 maggio 1997, quando è stato presentato al parlamento federale australiano il rapporto governativo ‘Bringing them home’. Tale rapporto, redatto in seguito a un’inchiesta sulla separazione dei bambini aborigeni e isolani dello Stretto di Torres dalle loro famiglie, avviata nel 1995 dal Procuratore Generale Michael Lavarch e condotta dalla Commissione per i diritti umani e le pari opportunità (HREOC), illustra dettagliatamente la storia e le sofferenze delle Stolen Generations: tra il 1910 e il 1970, almeno 100.000 bambini furono allontanati dalle loro famiglie. Inoltre, come già detto in precedenza, tale politica non ebbe soltanto numerosi e invalidanti effetti nocivi sui soggetti in causa ma può essere considerata un’azione criminale per le modalità e gli intenti con cui fu messa in atto. Il ‘Bringing them home’, tuttora consultabile online, ha suscitato numerose reazioni, tra cui le scuse presentate dai parlamenti degli stati di Victoria, Australia Meridionale, Nuovo Galles del Sud e Tasmania. L’anno seguente, sempre il 26 maggio, è stato istituito il National Sorry Day per far sì che i torti subiti dalla Generazione rubata vengano resi noti. Per lo stesso motivo tale evento, a partire dal 2005, viene celebrato anche nel Regno Unito grazie all’Eniar, la Rete europea per diritti degli indigeni australiani. Il terzo momento, particolarmente significativo per i popoli aborigeni, è avvenuto il 13 febbraio 2008, quando il neo-primo ministro australiano Kevin Rudd si è scusato ufficialmente con tali popolazioni e con i sopravvissuti delle Stolen Generations. Questo fatto è considerato un momento storico per gli Aborigeni australiani poiché il governo australiano ha ammesso e si è assunto la propria responsabilità per quanto successo a tali etnie.

Anche la letteratura e il cinema hanno contribuito e contribuiscono al processo di riconciliazione; numerosi autori di origine aborigena (soprattutto donne) vissuti nel periodo della Generazione rubata hanno raccontato le loro esperienze personali o quelle dei loro genitori, soprattutto per rivendicare e riappropriarsi della loro identità attraverso la scrittura. Inoltre, tale processo di riappropriazione è avvenuto anche tramite il cambiamento di nome e cognome, assumendo dei connotati che simboleggino la cultura d’origine. Tra gli autori più conosciuti è importante citare le scrittrici Oodgeroo Noonuccal (alias Kath Walker), Judith Wright, Sally Morgan e Nugi Garimara (alias Doris Pilkington). Dal romanzo di quest’ultima, «Follow the Rabbit-Proof Fence» (1996) è stato tratto il film «La generazione rubata», uscito nel 2002. Sempre sul versante cinematografico, ci sono numerosi documentari (purtroppo inediti in Italia) che illustrano nel dettaglio le vicende di alcuni sopravvissuti alla Stolen Generation. Il primo ad occuparsi di tale tematica fu «Lousy Little Sixpence» (1983), che ha ottenuto numerosi riconoscimenti in Australia. Il titolo si riferisce ai pochi spiccioli (sei penny) che i bambini indigeni avrebbero forse ricevuto dopo le estenuanti ore di lavoro.

Purtroppo, nonostante tali progressi, l’azione colonizzatrice su tali popolazioni è percepibile ancora oggi. Infatti, come rivelato da Survival International (il movimento mondiale per i diritti dei popoli indigeni) molti di essi vivono ai margini delle città o dell’Australia rurale e non sempre riescono a rivendicare il possesso dei loro territori d’origine a causa dei furti, della distruzione dei territori stessi oppure a causa delle continue ostruzioni da parte del governo australiano. Oltre a ciò, un dato particolarmente allarmante è che “gli Aborigeni sono ancora oggi oggetto di razzismo e violenze, e molti di loro vivono in condizioni disumane. Di conseguenza, soffrono un tasso di suicidi e mortalità infantile molto superiori a quelli del resto della popolazione, e hanno un’aspettativa di vita molto più bassa”.

La strada, quindi, è ancora lunga.

Elisa Ceccon

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