La tragedia del popolo Rohingya in Birmania e il silenzio della San Suu Kyi. Storia e protagonisti

Con il tempo, scrivendo, ho imparato l’importanza della narrazione. Con il tempo ho scoperto la straordinaria ricchezza del racconto, ho iniziato ad apprezzare – per me stessa e per chi sceglie di leggere ciò che scrivo – la necessità di raccogliere dati e informazioni, l’essenza racchiusa nella ricostruzione dei fatti sia nel tempo che nello spazio. In pochi, forse, conoscono il popolo Rohingya e il dramma che si sta consumando tra il Bangladesh e la Birmania.

I Rohingya costituiscono una minoranza etnica di religione musulmana, relegata nel nord –ovest della Birmania. Il popolo Rohingya rappresenta una comunità musulmana antichissima, le cui origini non sono ad oggi ancora del tutto note. I Rohingya si sono stanziati nei territori tra l’attuale Birmania e il Bangladesh nel corso dei secoli. Ciò nonostante, dagli inizi degli anni Ottanta, sono considerati immigrati illegali dal Bangladesh, dove non hanno diritto alla cittadinanza e vivono ai margini della società in condizioni di sottosviluppo e povertà. In Birmania, il popolo Rohingya si concentra nello Stato di Rakhine (ex Arakan). Dal 2012, nella capitale Sittwe e in numerosi villaggi di Rakhine, vengono perpetrate violenze e atti repressivi nei confronti della minoranza musulmana dei Rohingya. Ad oggi in migliaia sono costretti ad abbandonare la capitale e i villaggi, per cercare rifugio al confine con il Bangladesh.

Lo Stato Rohingya è sempre stato inaccessibile e mentre si consuma una tragedia umanitaria, i pochi giornalisti che sono riusciti a fare ingresso a Rakhine testimoniano la traversata di oltre 100mila profughi Rohingya verso il confine bengalese e numerosi villaggi evacuati e dati alle fiamme. Dal lontano 1962, anno del colpo di Stato nell’ex Myanmar ad opera delle giunte militare, il popolo Rohingya è costretto a vivere ai margini, privato di ogni diritto civile e politico. Anche dopo le prime elezioni libere del paese nel 2015, dalle quali è uscita vittoriosa la dissidente Aung San Suu Kyi – nel 2010 liberata dalla giunta militare, dopo 15 anni di prigionia – non solo le condizioni di vita della minoranza Rohingya nel paese non sono migliorate, ma si sono acuite le manifestazioni di intolleranza e di violenza da parte della maggioranza buddista e dell’esercito birmano.

Il lento e difficile processo di democratizzazione della Birmania e il ruolo di primo ministro de facto del Premio Nobel per la Pace San Suu Kyi non hanno neppure portato all’abrogazione dell’obbligo di indicazione sulle carte d’identità dei cittadini sia del gruppo etnico che religioso di appartenenza. Birmania, dove dal 1961 il buddismo è religione di Stato e, nel quale non sono mancati episodi violenti e razzisti nei confronti della minoranza musulmana, posti in essere da squadre di fanatici e oltranzisti buddisti, che oggi collaborano con militari e polizia birmana nelle operazioni di repressione a Rakhine.

Sono diversi i fattori che hanno contribuito all’esodo di massa del popolo Rohingya dalla Birmania, con il coinvolgimento diretto dell’esercito birmano, che informalmente conserva buona parte del potere politico e gode di immunità e privilegi.

È possibile ritenere che la repressione nei confronti della minoranza etnica e religiosa dei Rohingya abbia avuto origine in un fatto di cronaca avvenuto in Birmania nel 2012. Una ragazzina buddista sarebbe stata violentata – successivamente sfregiata e uccisa – presumibilmente da un musulmano, un “kalar” (dispregiativo usato in Birmania per indicare i Rohingya). Dalla violenza si sarebbero susseguite rappresaglie contro la comunità Rohingya e violenze di presunti “guerriglieri” musulmani contro altri civili innocenti di religione buddista. Questo episodio di cronaca nera si suppone sia stata la scintilla dalla quale sarebbero scattate le prime tensioni etniche e religiose all’interno del paese. Rappresaglie da parte di entrambe le comunità, che avrebbero costretto poi l’esercito ad intervenire, al fine di separare le due etnie, relegando i Rohingya nel nord – ovest del paese senza possibilità di spostarsi.

I protagonisti di questa vicenda, che sta assumendo sempre più i contorni di una pulizia etnica, ad opera dei militari e della polizia birmana – forse anche alimentata dal timore di una infiltrazione di terroristi islamici nel paese – sono diversi. Il primo è il monaco U Whiratu del movimento buddista ultraortodosso “Ma Ba Tha”, che sembra avere contatti con i gruppi buddisti nazional-fascisti operanti nello Sri Lanka e in Giappone, riconducibili al movimento Bbs (Buddhist Power Force). Movimento “Ma Ba Tha” che è stato sfruttato dai Generali per le loro campagne anti-immigrati. Si aggiunge l’esistenza di un vero e proprio Esercito di salvezza dei Rohingya dell’Arakan (Arsa), capeggiato Ata Ullah – cresciuto in Arabia Saudita – e oggi leader del gruppo di ribelli Rohingya. Sebbene Ata Ullah abbia negato qualsiasi contatto e legame con i gruppi terroristi – da Al Qaeda all’IS – la Birmania teme lo Jihadismo e il fondamentalismo islamico.

I militari birmani, accusati di violenze e violazione sistematica dei diritti umani nei confronti della minoranza etnica dei Rohingya, si ribellano alle ultime accuse lanciate dalla comunità internazionale e dall’ONU. Atrocità commesse dall’esercito e dalla polizia birmana – solo una settimana fa sono stati date alle fiamme interi villaggi nel nord – ovest del paese – aggravate dal silenzio del Premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi. L’esercito militare si difende, accusando i ribelli dell’Arsa di aver appiccato gli incendi e di aver costretto migliaia di civili in fuga, per perorare la loro causa, attirando attenzione mediatica e, soprattutto, politica di Stati come l’Arabia Saudita.

La leader birmana, non presentandosi alla riunione dell’Assemblea Generale dell’ONU per discutere sull’emergenza umanitaria dei Rohingya, ha di fatto avvalorato le accuse e l’indignazione espresse sia dalla comunità internazionale sia dagli altri Premi Nobel per la Pace, tra i quali la giovane pakistana Malala. Quest’ultima, nei mesi scorsi, ha avanzato anche la proposta di ritirare il premio all’ex dissidente. L’omertà e il silenzio della San Suu Kyi hanno permesso che, negli ultimi giorni, si concentrasse l’attenzione internazionale sullo spaventoso esodo dei Rohingya dalla Birmania. Dalle ultime interviste rilasciate dalla San Suu Kyi è emerso un’immagine di leader politico più preoccupato per il processo di “democratizzazione” del proprio paese che della violenza perpetrata dall’esercito birmano. La stessa donna, che in totale prigionia per 15 anni, ha combattuto per la difesa dei diritti umani e per uno Stato democratico contro la Giunta militare. Non sono chiari i contorni entro i quali si muove la leader birmana, costretta forse a scendere a patti con l’esercito e il nazionalismo birmano e a chiudere un occhio su atrocità e repressione, le cui vittime sono donne, uomini e bambini innocenti.

C’è il sospetto che la San Suu Kyi voglia preservare il proprio potere politico. Un potere fantoccio. È pur vero però che cresce, di giorno in giorno, il rischio di attentati terroristici in Birmania, qualora i gruppi Jihadisti decidano strategicamente di mobilitarsi. Nel frattempo il popolo Rohingya fugge, dimenticato da Dio, rischiando di scomparire nell’oblio, come è accaduto a lungo per il genocidio degli armeni. Un altro popolo, un’altra minoranza il cui sterminio è rimasto a lungo nel silenzio della storia.

 

Chiara Colangelo

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