No to racism: il problema del razzismo nel calcio

Da qualche anno, la Uefa promuove la campagna pubblicitaria “No to racism”. Il suo intento è quello di combattere il razzismo nel calcio, coinvolgendo ogni anno le varie star del pallone in spot e dichiarazioni in modo da sensibilizzare i tifosi sul tema.

La questione, però, è più complessa di quello che si potrebbe pensare. Infatti, il razzismo è soprattutto una piaga sociale, che di base ha ben poco a che vedere con il calcio. Anzi, come tutti gli altri sport, esso ha contribuito in larga parte a far diminuire il tasso di razzismo nella popolazione mondiale.

Questo perché la gente è riuscita ad entrare sempre più in contatto con atleti di colore, che spesso hanno finito per rappresentare la propria squadra o la propria nazione. In questo modo, essi sono diventati degli idoli per i propri tifosi.

Ma allora perché l’atteggiamento cambia quando il calciatore di un’altra razza si trova a vestire la maglietta avversaria? Bè, la risposta è molto semplice in realtà: perché il razzismo è molto presente ancora, purtroppo, nella società occidentale. E lo scontro sportivo fa spesso venire fuori gli istinti più beceri delle persone. Di sicuro, perciò, gli episodi legati al calcio sono i più eclatanti e mediaticamente esposti. Ma ce ne sono tanti altri che manifestano forme di razzismo molto più gravi al di fuori del mondo del pallone.

Pertanto, è sbagliato vedere il razzismo come un problema legato unicamente alla partita di calcio o al mondo degli stadi e degli ultras. Così come non è corretto attribuire una tendenza discriminatoria maggiore ad una tifoseria piuttosto che ad un’altra. O collegarla solo ad alcuni paesi.

E questo perché in realtà è tutta la società europea e mondiale ad avere al proprio interno una certa componente razzista. Ed il calcio non solo non c’entra niente. Ma probabilmente nemmeno può fare qualcosa di più in proposito. Anche perché sembra davvero un esercizio di fantasia pensare di riuscire ad educare delle persone all’interno di una manifestazione sportiva, se non ci si è riusciti prima nelle sedi più opportune.

Ma come si può pensare di limitare la stupidità di qualche razzista sugli spalti minacciando di fermare la partita? O di squalificare il relativo settore dello stadio? Cosa può cambiare un provvedimento del genere? Purtroppo non si riesce a capire che il problema è molto più radicato e profondo di un paio di cori insultanti. E che non si può provare a delimitarlo ad un solo ambito della vita sociale di un popolo.

In questo senso, poi, va detto che spesso i protagonisti del mondo del pallone non hanno la minima competenza per parlare di un argomento così complesso e delicato. Tanto che a volte viene da interrogarsi sul perché vengano ancora coinvolti sul tema.

Innanzitutto, ciò vale ovviamente per i calciatori. È ridicolo in ogni caso pretendere da loro un comportamento maturo ed equilibrato in materia. Di fatto, o essi si rifugiano nelle solite banalità, che non aggiungo niente alla discussione generale. O rischiano spesso, dicendo quello che pensano veramente, di fare più danni che altro, non avendo la sensibilità necessaria per capire tutte le sfumature del problema.

E così, i giocatori di colore finiscono spesso per reagire in modo scomposto, peggiorando la situazione. Mentre i giocatori bianchi, a volte, non arrivano neanche a comprendere la portata dell’offesa rivolta ai propri compagni. Perciò, finiscono per cercare soprattutto di mediare tra le parti, non volendo mettersi contro i propri tifosi o quelli avversari. Proprio come ha fatto Bonucci l’altro giorno per l’episodio che ha coinvolto Kean a Cagliari.

Ancora peggio sono i dirigenti. Questi sono interessati solo ad accattivarsi le simpatie del pubblico e ad evitare danni sportivi ed economici per il club. Per questo, non risparmiano difese ai propri sostenitori, tanto improbabili quanto ridicole. Va detto però che qualcuno di più evoluto tra loro, a volte, adotta un atteggiamento di rimprovero nei confronti dei diretti interessati. Ma questo lo porta soltanto ad essere insultato e contestato dalla sua stessa tifoseria. Proprio come è capitato al presidente della Roma James Pallotta qualche anno fa.

Questo per non parlare, poi, dei giornalisti sportivi… Essi sono sempre in bilico tra la ricerca della posizione più moralista e quella, al contrario, più eclatante e controcorrente. Ciò dimostra come essi non siano interessati minimamente allo sviluppo di un dibattito costruttivo sul tema. Anche se va detto che, probabilmente, non sarebbero nemmeno in grado di farlo in realtà.

Sì, perché un argomento del genere merita un contesto e degli interlocutori capaci veramente di comprenderlo a pieno e di affrontarlo in modo adeguato. Persone che riescano a capire che il razzismo è qualcosa di più profondo e vasto del semplice fare “buu” ad un calciatore avversario. E che riescano a distinguere i casi di semplice sfottò da quelli di odio violento ed ingiustificato. Tutti aspetti, però, impossibili da pretendere nel mondo del calcio, che ha totalmente un’altra funzione ed altre abitudini.

E allora, forse l’unica soluzione è smetterla di parlare di razzismo collegandolo al discorso calcistico. E lasciare, quindi, che ad occuparsi di ciò siano la scuola, la famiglia o la politica, le uniche entità in grado di cambiare qualcosa in tal senso. Ed evitare di far esprimere i protagonisti del pallone. Limitandosi al massimo a fargli dire in televisione, come sono soliti fare da anni ormai, un semplice e banale “No to racism”. Così da evitare almeno ulteriori ed inutili problemi.

Leonardo Gilenardi

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