Israele: l’altro lato della medaglia

Mentre tornavo da una gita in solitario dal deserto del Negev, ho deciso di accendere la radio locale per ascoltare un po’ di melodie diverse da quelle a cui noi occidentali siamo abituati. Erano circa le 18 e sedevo in treno. Credo di aver cambiato come minimo sei stazioni, di cui una completamente in lingua russa, tre dedicate alla musica israeliana con artisti di varie origini (Mizrahim, Ashkenaziti) e due dedicate alla lingua araba e più precisamente all’Islam.

Non ricordo di aver mai sentito radio nostrane o europee trasmettere in diretta nazionale la chiamata alla preghiera del muezzin come l’ho sentita in radio in Israele. Mentre mi godevo il suono mediorientale di questa preghiera, riflettevo su quanto sorprendente fosse stato per me Israele riguardo all’apertura e accoglienza di ogni gruppo etnico, soprattutto di quello arabo.

Io vivevo ad Haifa, città con una fiorente comunità palestinese cristiana alla quale viene concesso di non osservare il sabato, di celebrare la domenica e di diffondere la loro lingua madre, l’arabo. Sugli autobus delle città di Haifa, Gerusalemme e Beersheba ogni destinazione è scritta in bilingue (arabo ed ebraico), mentre l’università di Haifa ospita la più grande comunità palestinese in Israele, circa 20%. Passeggiando per i corridoi o quando ci si gode il panorama del mare nostrum dalla terrazza dell’università, è quasi difficile sentire dialoghi in lingua ebraica, data la grande presenza araba nel campus.

E poi ancora, Israele ha al suo interno intere città arabe come la storica Acco, la famosissima Giaffa e l’intero deserto del Negev popolato da beduini di discendenza araba. Oltre a queste popolazioni nomadi, una grande comunità drusa popola un villaggio vicino ad Haifa, il terzo per grandezza dopo quello in Siria e in Libano.

E’ paradossale come un popolo di lingua araba come quello druso abbia trovato un luogo dove abitare anche in un Paese senza alcun legame col mondo arabo invece che in altri Paesi limitrofi che condividono la stessa lingua (e in parte la stessa religione) ma che li ha sempre respinti e perseguitati. Israele accoglie le minoranze cristiane (circa il 2% dell’intera popolazione), quasi dividendo la città di Gerusalemme tra cristiani, musulmani ed ebrei.

In sintesi, mentre ero in Israele non ho avvertito nessun tipo di restrizioni, tensioni e controllo israeliano sul resto della popolazione gonym (non ebraica) e ciò mi ha fatto interrogare molto sulla differenza tra essere e descrivere, tra ciò che viene letto e ciò che è effettivamente la realtà.

La democrazia di Israele mi ha colpito anche in dettagli piccoli, come l’abbigliamento. In tal rispetto, non ho mai visto una ragazza in burkini prima di andare in spiaggia Dado ad Haifa, esattamente come sono stata colpita dai niqab e burqa che ho visto a Beersheba, insieme ai vestiti maschili tipici dell’Arabia Saudita. Questa libertà in un Paese oppresso da critiche, anche quando ha bisogno di appoggi, è ancora più affascinante se la accosto ai divieti di indossare il burkini in Francia, il divieto di indossare veli integrali in Danimarca e la cieca convinzione che ciò sia illegale pure in Italia.

Israele mi ha colpita con la sua democrazia e la sua accoglienza delle minoranze e delle diversità, oltre che con i suoi numerosi programmi universitari a favore della pace in Medio Oriente e con eventi in lingua inglese, quindi universalmente comprensibili, riguardanti tra le altre cose, ex capi del Mossad e l’attuale ministro della difesa Avigdor Lieberman.

 

Ultimi ma non ultimi, mi hanno colpito gli israeliani e i palestinesi che, nati nei confini riconosciuti, si sono definiti israeliani, così come mi ha fatto riflettere chi mi diceva di volere i passaporti europei in caso Israele fosse spazzata via da un altro conflitto e come mezzo legale per riavvicinarsi alle proprie origini europee, come simbolo del legame indissolubile con il nostro continente.

Israele non è solo quello che si legge sui giornali, non è tutto quello che si sente in televisione e non è assolutamente come ce lo immaginiamo.

Martina Seppi

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