Le passerelle della delocalizzazione: dietro le quinte della moda

Talvolta i numeri spiegano la realtà meglio delle parole. Una cifra su tutte: 83,6 miliardi di euro. Tanto vale, secondo una stima forfettaria di alcuni operatori finanziari, il settore della moda-accessori-gioielli in Italia; dato, sembrerebbe, destinato a crescere del 1,8 percento entro fine 2017.

Per intenderci, tanto per dare un altro po’ i numeri, vale da solo 4 punti del Pil italiano, vantando molta liquidità e pochi debiti. Guida il gruppo Luxottica, il cui titolo vola costantemente in Borsa anche in periodi di forte volatilità del mercato, seguito da Prada ed Armani. Si difendono Calzedonia ed Otb, che si segnala per crescita costante e lungimiranza manageriale. La maison più in crescita come fatturato è Valentino.

Posta così sembrerebbe, dunque, il fantastico mondo delle fiabe, un settore costantemente in crescita, il cui indotto non conosce crisi, che ha delle vere e proprie impennate durante la settimana della moda milanese. Un’oasi nel deserto della crisi, soprattutto dell’industria italiana che paga lo scotto della progressiva falcidia a cui sono state sottoposte le piccole e medie imprese. Visto che, però, i bei sogni muoiono all’alba, gli incubi mattutini in questo caso si chiamano globalizzazione del mercato e delocalizzazione. Come dire, la torta è grande, succulenta e con un’ottima glassa al cioccolato, ma vi lasceremo al massimo le briciole da spartirvi.

C’erano, allora, una volta due sociologi e un’antropologa, Davide Bubbico, Veronica Redini e Devi Sacchetti, che nel loro ultimo saggio, “I cieli e i gironi del lusso”, hanno condotto un’articolata indagine sul dietro le quinte della moda. Quello che emerge dalla loro fatica letteraria, è un’industria in cui, sempre più spesso, il controllo manageriale e della gestione del prodotto e del marchio viene accentrato, rispetto ad una produzione che viene progressivamente spostata all’esterno. Nulla di nuovo, se non fosse che realmente i consumatori del prodotto finale non sappiano la provenienza del caro (in tutti i sensi) oggetto del desiderio acquistato.

Ad una progressione economica furiosa e ad un progresso tecnologico imponente, fa, dunque, da contraltare uno sfruttamento intensivo della forza lavoro e della produzione. La nuova frontiera della moda è il cosiddetto modello “just in time”, che ha fatto la fortuna di marchi quali Zara. L’idea è semplice, prendere le ultime tendenze di mercato imposte dagli operatori, contrarre al minimo la catena del valore focalizzandola sull’abbattimento dei tempi logisticisti e immettere il prodotto di moda sul mercato nel più breve tempo possibile.

Ma ci siamo mai realmente chiesti quanto paghiamo questo prodotto? È un costo che non si può quantificare del tutto, perché riguarda concetti di più ampio respiro come tutela delle condizioni di lavoro, protezione della manifattura, sindacalizzazione. Tutte “robe” che, forse, abbiamo barattato con brand a buon mercato e prodotti di cui ci stancheremo nel giro di una settimana al massimo. La seconda domanda è, come reperiscono la forza lavoro le aziende d’abbigliamento in paesi far away come il Bangladesh o la Cina? Bene, le case di moda si appoggiano ad agenzie interinali in loco che si occupano di reperire i lavoratori a più buon mercato. E fin qui tutto più o meno normale, se non fosse che queste agenzie richiedono le proprie commesse non alle grandi maison, ma agli stessi lavoratori che oltre ad essere malpagati e sfruttati, si ritrovano a dover pagare un importo iniziale per lavorare che verrà loro man mano scalato dai successivi pagamenti.

Detto questo, è evidente che non siano solo quelli del lusso e della moda dei gironi infernali per quanto riguarda lo sfruttamento di fenomeni di delocalizzazione produttiva. È tutta una generale tendenza “Pinketty” di accentramento della ricchezza nelle mani di pochi e depauperamento progressivo di larghe frange della popolazione. Non ne guadagnano, di certo, le popolazioni che vengono sfruttate e soprattutto non ne guadagna l’economia italiana. Tutta la torta di quegli 83,6 miliardi di euro verrà ripartita in fette più o meno grandi tra top manager, amministratori delegati e titolari dei marchi e il divario sociale, oltre alla perdita della qualità estetica e produttiva, continuerà ad allargarsi come due faglie che progressivamente si allontanano.

Il Dio denaro è inutile negarlo ha sempre avuto la diabolica tendenza a dominare il mondo. Eppure, storicamente, la moda nasce come fenomeno artistico e culturale, oltre che come mezzo di rivendicazione sociale delle minoranze. Non è un caso che in piena rivoluzione francese, una delle prime misure che venne adottata fu quella di eliminare ogni convenzione sociale nel modo di vestire. E non è parimenti un caso che a livello figurativo l’emancipazione femminile è passata attraverso la possibilità per le donne di indossare un capo fino ad allora esclusiva degli uomini come i pantaloni.

La strategia delle case di moda di omologare la produzione e di ridurre il tutto ad uno sfruttamento intensivo della forza lavoro, abbassando di converso la qualità, è un tassello ulteriore del piano di pochi “dei ex machina” oligarchici teso ad impoverire sempre di più, economicamente, culturalmente e socialmente le masse per avere maggiore facilità nel controllarle. E così la globalizzazione da potenziale mezzo di apertura tra le diverse popolazioni e di abbattimento delle differenze razziali, sessuali e religiose, è finita per diventare uno strumento di controllo per ampliare progressivamente quelle tra ricchi e poveri.

Soluzioni al dilagare di questo fenomeno è difficile ritrovarle, non è nemmeno questa la sede preposta; probabilmente servirebbe una nuova classe di intellettuali, esteti, artisti, politici, sul modello del dispotismo illuminato russo di Caterina la Grande, che sappiano riportare nei diversi ambiti della vita delle popolazioni la misura, il gusto, la cultura e la redistribuzione della ricchezza.

Annarita Lardaro

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