Ode all’anima, quella bella, di Napoli!

Quando si parla di Napoli, inevitabilmente e quasi nell’immediato, si finiscono per creare fazioni, dissapori, pareri contrastanti e discussioni animate. Il cuore pulsante di questa città batte, in fondo, anche nell’attimo in cui permea qualsiasi argomento. La si ama, come tutti quelli che arrivati armati di profondo scetticismo e pregiudizio, dopo averla assaporata nei piatti, respirata negli odori, ammirata nei colori, non se ne vogliono più separare. E non se ne separeranno, perché quei suoni e quell’anima non si dimenticano più. La si odia, di converso, per i suoi limiti, le sue mille contraddizioni e le sue molte criticità e disfunzionalità. Inutile negarlo, sono tante ancora le cose che non girano a Napoli. Eppure non lascia mai indifferenti, non fosse altro per suscitare un moto rabbioso in chiunque l’abbia amata e la vede vilipesa da certe dinamiche.

“Napoli è come una Vipera: la testa è velenosa, la coda non serve a niente, la parte di mezzo è buona”. Così la descrive in maniera incisiva, Enzo Striano autore del “Il Resto di niente”, uno dei romanzi che forse meglio è riuscito a cogliere quelle contraddizioni, partendo da un fatto storico, la rivoluzione napoletana del 1799 e da una figura femminile realmente esistita e un po’ dimenticata come Eleonora Pimmentel Fonseca. La testa rappresentava i nobili, quelli fannulloni che vivevano sulle spalle del popolo e che oggi io, invece, vedo espressa dai camorristi, i malavitosi e tutti quelli che sporcano questa città, lucrando sulla vita delle persone; trasformando certi quartieri in piazze di spaccio a cielo aperto o riempiendo terre, ricche e fertili, di rifiuti, scientemente calpestando la salute delle persone. La coda, invece, era rappresentata dalla media borghesia agiata, non particolarmente ricca, né povera che, però, neppure si impegnava nella lotta di classe. Non serviva a nulla, appunto. Oggi la rivedo in tutte quelle persone omertose, nel “c’amma fa” – che possiamo farci – che altri non è un modo pilatesco di esentarsi da ogni responsabilità per i mali di una città e che, nei fatti, si traduce in bieca connivenza. In un tacito accettare e quasi legittimare lo schifo che diffondono certe figure criminali. La parte di mezzo, infine, era quella parte di borghesia illuminata e colta che tentava di far emancipare il popolo dalla schiavitù in cui l’aristocrazia l’aveva ridotto. Era rappresentata da grandi intellettuali napoletani come la già citata Pimmentel Fonseca, Gaetano Filangieri, Vincenzo Cuoco e tanti altri, molti dei quali durante la rivoluzione che avevano scatenato persero la vita, ghigliottinati. Perché la rivoluzione napoletana è stata dimenticata, ma non è stata meno di quella francese per forza dei principi, solo che degli sconfitti la storia non si ricorda mai. Adesso, invece, io quella parte buona, sana, illuminata e coraggiosa la vedo rappresentata dai tanti intellettuali che, quotidianamente, lottano e danno voce agli oppressi, mettendo in luce i mali. Il controverso Saviano che, aldilà del giudizio personale, interpreta il suo ruolo di intellettuale, non asservito al potere, ma libero. Lo stoico Erri De Luca che, nonostante l’avanzare dell’età, mantiene il suo sguardo lucido su Napoli e sull’intera Italia, invitandoci tutti ad essere ribelli ed opporci a ciò che di ingiusto c’è in questo Paese. Ma non solo intellettuali e personalità di spicco rappresentano quella parte sana. Forse, ancor di più, ne sono espressione le tante persone che giorno dopo giorno vanno avanti onestamente e con sacrificio per far andar bene le cose, per impartire un’educazione di valori sani e rispettosi ai propri figli anche se circondati dallo schifo. Dai tanti che non si piegano ai ricatti, al pizzo, alle strade più facili, alla disonestà e che possono camminare a testa alta, poggiandola sul cuscino la sera, stanca sì, ma libera e leggera.

Questa parte è la mia Napoli. Questa voglio mettere in luce, non quella che un giornalaccio inglese come il Sun inserisce tra le città più pericolose al mondo non conoscendo neppure nel profondo di cosa stia parlando.

Voglio raccontare della Napoli dei bambini che “pazzeano” a pallone per le strade, urlando, schiamazzando, diffondendo gioia. Vita. “Pazziare” in napoletano significa giocare, rimanda alla follia, a quella vena un po’ matta che dovremmo sempre preservare in noi. I detrattori ci vedranno caoticità in questo, io ci vedo allegria, colore. Respiro. Voglio parlare della meraviglia da cui gli occhi sono riempiti, quando sei sulle scale della metro “a Toledo” e ti vedi apparire la bellezza di una stazione riempita di mosaici azzurri che richiamano il mare. Mi si obietterà che si bella bella la metro, ma se poi non passa. Se non passa ti metti sulla banchina e vedrai che qualcuno con cui attaccare a chiacchierare lo trovi. Vedrai, a Napoli si prestano spontaneamente a fare due chiacchiere, non si hanno mai troppe cose da fare. Bellezza. Voglio parlare delle voci che si alzano dai quartieri, delle mamme che chiamano i bambini per andare a mangiare con il caro vecchio metodo dell’urlare, tanto se non ti sente vedrai che ha sentito la vicina e te lo manda lei su. Crescere. Voglio parlare, ancora, del cestino di vimini – o panar – tirato giù al “uaglione di fatica” della salumeria del quartiere, del lungomare che fa lo stesso effetto di una seduta di yoga, ma più immediato e senza tutto quello stress di “arravogliarti” su te stesso, dell’ape che non sono le quattro tartine, ma una bella pizza fritta alle cinque e ti passa la fame e pure la paura. Della musica, che c’è sempre. Dell’odore di caffè, ancora. Di qualcuno che ti rivolge la parola, anche. Di una battuta fulminante e un po’ caustica, fissa. Semplicità.

Vivo a Roma da un po’ (città, ormai, non con meno problematiche) e posso dire di aver visitato diversi posti. Diversi mi sono piaciuti, tanti scorci mi hanno emozionato. Eppure una città con un’anima così definita come Napoli è realmente difficile trovarla. Che ti resta impressa addosso nel modo di vivere e di pensare, nell’accettazione di ciò che va e non va e nello scegliere sempre di prenderne il buono, nel “penz a campà” – pensa a vivere – che altri non è che l’insegnamento parmenidiano del panta rei.

E allora chiuderei con un saggio ed esplicativo detto napoletano che sintetizza un po’ come bisognerebbe vivere: “Fattell na risat che diman t putiss scetà fridd”, che tradotto è fattela una risata che domani ti potresti svegliare “freddo”, ovvero morto. Agli amici inglesi, quindi, il mio invito a farsela una risata che non si sa mai (su questo un gesto scaramantico parlando di Napoli poi gli è di certo concesso) e a visitarla prima di scrivere cose tanto per consumare inchiostro delle penne, di passarci un po’ di tempo e poi ne riparliamo. Ed è un invito nel vivere le cose con più leggerezza, anche agli stessi napoletani spesso troppo permalosi quando si parla di loro. L’autocritica e lo sguardo obiettivo su talune problematiche è il primo passo per risolverle fattivamente. Ed infine un invito a tutti noi, in questi tempi bui e sempre più pesanti, di continua autocelebrazione, di volersi mostrare per ciò che non si è, che, nei fatti, cela solo una grande mancanza di autostima e di poca accettazione di sé. Napoli insegna che mostrarsi genuini, imperfetti, fragili, talvolta contraddittori, è la chiave della bellezza. Quella reale e duratura, che non passa ma resta eterna nell’anima di chi ha la fortuna di entrarci in contatto.

Annarita Lardaro

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