“Preghiera per Cernobyl'” – a trentun anni dall’incidente nucleare

Lo scorso 26 aprile è stato il trentunesimo anniversario dallo scoppio della centrale nucleare di Cernobyl’: teniamo viva la memoria grazie al premio Nobel Svetlana Aleksievič.

Il 26 aprile 1986 il tetto del quarto reattore della centrale nucleare di Cernobyl’ è esploso in seguito alla fusione del nocciolo provocata da un errore umano, disperdendo nell’aria milioni di particelle altamente radioattive che rapidamente si sono espanse prima in tutta Europa e poi nel mondo intero.

L’esplosione ha provocato danni permanenti alle persone che lavoravano alla centrale e alle famiglie che abitavano nei dintorni – un caso esemplare è la città di Pripjat’, fiorita grazie al lavoro della centrale e diventata città fantasma in un solo giorno – e all’ecosistema locale e mondiale: quei luoghi sono ormai tornati in possesso della natura, che tuttavia è nociva, letale; gli animali che vivevano in quei posti sono stati soppressi e interrati, il latte da loro prodotto buttato, e anche in Italia per parecchi mesi c’è stata l’allerta sui prodotti caseari e vegetali.

Tutto questo è storia, ma è una storia di cui spesso si preferisce non parlare, perché troppo dolorosa, troppo forte perfino in un mondo dove parlare di violenza, sofferenza e guerre è un’abitudine: lì a Cernobyl’ è avvenuto qualcosa che va al di sopra dell’umana sopportazione, è un dolore radicale che assomiglia più a un castigo divino che alla conseguenza di un errore umano.

Tuttavia, nel silenzio provocato dal rispetto per il dolore, una donna è riuscita a mettere il suo dono, quello della scrittura, al servizio delle migliaia di voci protagoniste di quell’avventura atroce: Svetlana Aleksievič, premio Nobel per la letteratura 2015, ha raccontato nel suo libro Preghiera per Cernobyl’ la sofferenza delle persone che abitavano in quei luoghi tra l’Ucraina e la Bielorussia, dei soldati sovietici mandati a “ripulire” il territorio e a coprire il reattore, delle mogli degli ingegneri e operai impiegati alla centrale, e lo ha fatto dando la parola a loro.

Nel suo libro, che è a metà tra un reportage, un’annotazione di pensieri altrui, un promemoria per se stessa e per tutti i lettori, l’autrice scompare, per lasciar spazio a testimonianze in prima persona; tecnica che è valsa al suo metodo di scrittura l’aggettivo “polifonico”.

Noi lettori veniamo trasportati in un mondo post-apocalittico – è proprio così che più di una delle voci del libro descrive quei luoghi contaminati: ci ritroviamo immersi nel continuo suonare dei rilevatori di radioattività, in strade piene di vetture militari che spruzzano acqua per le strade, tra persone che cercano di continuare a vivere la propria vita come sempre, ignare o forse già abituate al pericolo di respirare, mangiare, camminare in quei territori.

Non si può rimanere indifferenti leggendo questo libro, e non a tutti è consigliato leggerlo: ogni testimonianza è come uno schiaffo, che fa aprire gli occhi su un mondo che forse non tutti desidererebbero conoscere, eppure che è necessario conoscere, per attribuire la giusta importanza a quegli uomini che hanno parlato, perché parlare aiuta a rimarginare la ferita.

Dalle pagine di Preghiera per Cernobyl’ traspare una grande dignità, per esempio nel racconto del viaggio in treno fino a Mosca di una famiglia evacuata, che si sente trattata come lebbrosa, a cui non viene offerto nemmeno il tè nel vagone per paura delle radiazioni; nel ricordo di una ragazza, allora bambina, costretta a indossare il suo unico cappotto ormai tutto imbevuto di radiazioni, recuperato da Pripjat’ e tanto odiato da lei; nel resoconto di un soldato che aveva soppresso tanti cani e gatti, eppure non è riuscito a sopportare lo sguardo di un unico cucciolo rimasto vivo durante l’interramento; nelle confessioni di soldati e ragazze del posto per i quali mettere al mondo un figlio è diventato peccato capitale, perché chi si prende la responsabilità di far nascere una creatura che sarà quasi sicuramente costretta a passare la sua infanzia in cliniche specializzate?

La Aleksievič, senza palesare mai la sua presenza nel libro, se non nella prefazione aggiunta dopo l’incidente nella centrale di Fukushima in Giappone, mette in guardia tutti gli esseri umani sui pericoli non solo del nucleare, ma anche del mettersi a fare Dio, credendo di riuscire a controllare tutto: natura, atomi, uomini.
Questo libro è una grande lezione di sofferenza e di dignità, e una volta letto rimane dentro, fa male, ma è un dolore necessario per conoscere e capire.

Maria Chiara DAgostino

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