Terzo millennio e isolamento culturale nel “villaggio globale”

Il Minotauro aveva attorno a sé un Labirinto centrato e gli abitanti del piccolo villaggio lo temevano come il monstrum che era. Mi proverò a coniugare la leggenda mitologica col nuovo villaggio globale, nella cui labirintica rete senza testa saremo vittime e “monstrum” (monstra!), insieme.

Del Minotauro e del Villaggio Globale.

Il Minotauro aveva attorno a sé un Labirinto centrato e gli abitanti del piccolo villaggio lo temevano come il monstrum che era. Mi proverò a coniugare la leggenda mitologica col nuovo villaggio globale, nella cui labirintica rete senza testa saremo vittime e “monstrum” (monstra!), insieme.

Come Universale, uno “spicchio di mondo”.

L’occhio si sgranava su visioni di fili che correvano all’infinito. Ognuno di essi trasportava un discorso.

C’era il filo di fumo da una montagna all’altra, che si rispondevano. Il filo del telegrafo che trasmetteva notizie. Il filo di fumo della locomotiva che spostava merci e persone. Il filo che portava elettricità negli abitati. Il pennacchio di fumo delle navi che segnalava l’arrivo nei porti.

Era quasi comodo scomporre, data la separazione spaziale esistente, un mondo rispetto a un altro, lontano, sconosciuto e, per ciò stesso, forse inesistente. O addirittura supporre che ne esistesse solo uno, frammentato e disperso, il proprio.

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L’illusione di essere l’unico mondo possibile si nutriva del senso di  appartenenza a una comunità, che si fortificava affrontando le difficoltà del quotidiano.

Reti di solidarietà riequilibravano i conflitti e, nel ricomporsi delle controversie, rimanevano intatte le funzioni, i ruoli, di fatto, quella tassonomia intorno cui ognuno si  riconosceva perché  l’aveva perpetuata. Le novità, gli imprevisti erano sottoposti al vaglio di un corpo eletto dalla comunità che decideva se rifiutarle, accettarle o fronteggiarle.

Così s’imponeva come universale uno “spicchio di mondo” e ogni differenza era inglobata e/o messa a tacere da un linguaggio unico, scarno che poneva argini al dubbio. La schematizzazione di buoni e cattivi tagliava trasversalmente ogni incertezza.

Il <senso dell’abitare> andava a  spasso con i ritmi regolari del giorno e della notte e con le regole sociali che, dalla scansione temporale, sembrava scaturissero la loro “naturalità”. Gli uomini occupavano un “fuori”, le donne un “dentro”, i bambini giocavano a fare gli uomini, le bambine giocavano a fare le madri (buone) e le civette (cattive).  Ogni cosa al suo posto: un labirinto con un centro soltanto ed una unica uscita.

 

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Il gioco molteplice del Minotauro.

Il Minotauro, all’interno del suo labirinto, riconosce se stesso dalla immagine che lo specchio gli rimanda di sé. Ogni movimento compiuto è ripetuto; acquista vigore il suo essere centro in questo gioco. Ma lo sgomento è lì quando le pareti specchiate gli rimandano non un unico se stesso, ma cento, mille se stessi.

 

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Il gioco del muoversi riformula mille Minotauri che si muovono con lui, vicini e lontani: una moltitudine  che gli è somigliante.

Ha l’illusione di essere il capo, il re, il dio di tutti che lo seguono e compiono tutto ciò che lui compie.

Il Minotauro “centro e una sola uscita”. Ma è un’uscita cieca, perché non lo porterà da nessuna parte. È un’uscita che è solo “ingresso” per i fanciulli-sacrificio-cibo.

 

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Il <labirinto centrato> si rivela una prigione mortifera per chiunque lo abiti.

 

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Il mito svela una necessitante operazione e svolge un rito di passaggio: da un linguaggio comunicante, seppur esiguo; compreso da tutti, seppur monocorde; esclusivo e, per ciò stesso, escludente lo “straniero alla comunità”, verso un linguaggio multiplo, dai contorni sfumati, dai mille accenti sfuggenti, dalle molteplici sfumature.

… Da un <labirinto centrato>, con una sola uscita/entrata che confortava il senso di estraneità, affermando la certezza di “essere nel mondo”.

… Dalla <coscienza di un centro> che si costituiva come luogo di significato, di relazione, che si autoaffermava come unica mappa del continente del Significato, verso la <coscienza planetaria> del nostro tempo, che vieppiù ci sposta in direzione di innumerevoli dimensioni significative tanto più paradossalmente ci spinge verso una  dilatazione dell’estraneità.

 

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I fili comunicativi sono miliardi. Sono così tanti che se avessero continuato a ramificare avrebbero eretto la terra a immensa gabbia e allora si sono lanciati nell’etere satellitare.

 

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Non più solo un filo…

Abbiamo più di quell’unico filo che Arianna aveva fornito a Perseo, ci sono i fili telematici, quelli virtuali.

 

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Lo spazio cielo-terracqueo è un immenso labirinto senza forma e senza percorsi finalizzati a un centro.

 

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“La produzione di mappe urbane, di sistemi di comunicazioni aeree sono inconsapevolmente  labirintiche. Se si osserva l’immagine globale di queste reti gettate sulla superficie del pianeta si trae l’idea che si è giunti al labirinto per eccellenza: alla sfera dove ciascun punto è un luogo d’arrivo e di partenza e in cui il centro è in ogni dove” (Il  sapere è un labirinto, Vol.  15^, Enciclopedia Einaudi).

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Certo, sgomenta questo infinito Luogo.

Provate a immaginarlo come una continuità di montagne russe, dove ogni attimo necessita di una scelta: avere paura, piangere, stare calmi, ridere.

Ognuno, con le sue proprie modalità diverse nell’affrontarle, comporrà l’originalità del muoversi in tale labirinto,  di avanzare verso un’uscita o di arretrare verso la precedente senza la disperazione di  aver mancato il  bersaglio.Ogni snodo sarà un plesso da cui ripartire, in cui attardarsi o, anche permanere.

Se  il <labirinto centrato> era la guida del Senso, il <labirinto a-centrato> guida gli individui a “dare un senso”.  Permette la sperimentazione di vie nuove, di risposte, di ipotesi  possibili e sfida a metterle in atto.

 

Il <villaggio globale> è fatto dell’eterogeneità di tutte le risposte e di tutte le ipotesi. È fatto della solitudine di ciascuno e dell'<ambre del alma> (Clarissa Pinkola Estés, Donne che corrono coi lupi), la fame dell’anima, che ognuno prova quando  ha smarrito il senso del suo “vivere”.

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È fatto di una duplice solitudine, “quella che può essere cullata e questo suo movimento contiene in sé chi culla” (Tony Morrison, Amatissima),

 

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e  quella “che vaga …  Una cosa  secca che si allarga e fa risuonare i passi di chi cammina come se venissero da un posto lontano” (Tony Morrison, ibidem).

 

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È fatto, dunque, di donne e di uomini, di bambine e bambini, di vecchie e di vecchi, delle loro  <finitudini  umane> (Michel Foucault,  Le parole e  le cose) e delle emozioni di ciascuno.

 

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Per tirarne fuori il meglio sarà sufficiente non perdere di vista il bisogno di <fare anima> (James Hillman,  Il mito dell’analisi) quella voglia di comunanza che fa condividere le impressioni del tuo viaggio con compagni di altri viaggi.

 

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“Villaggio di più mondi”.

Basterà superare le barriere mentali perché, se nell’antico “villaggio-unico mondo” il Qui era separato dall’Altrove e il solo problema appariva saper distinguere il Noi dallo Straniero, nel nostro “villaggio di più mondi” il “problema sarà scoprire in che modo gli altri, di là dal mare o dell’oceano, in fondo al corridoio o nella casa vicina, organizzano il proprio mondo significativo”  (Clifford Geertz, Antropologia interpretativa).

 

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Il <villaggio  globale> è fatto di attività; non sono soltanto compiti tecnici ma <modi di essere nel mondo>. O meglio, è fatto d’individui che svolgono arti, mestieri, professioni intorno a cui imperniano le  proprie esistenze e che penetrano in esse: non solo un mestiere praticato, dunque, ma un <modo di essere nel mondo>.

 

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Attività che aumentano le separazioni tra “luoghi di lavoro e spazi dell’abitare”, che marcano “l’isolamento in routine di scambio, che si svolge soltanto all’interno del proprio ambiente lavorativo e/o ceto sociale” (Sergio Cotta, Perché la violenza).

Che fare?

 

labirintoChe fare, affinché la “solitudine erratica” si trasformi in “solitudine che  fa e cerca compagnia”, affinché le attività non azzerino la libertà di un <rapporto a tutto  orizzonte> e i fili telematici non producano solamente incontri  virtuali?

Cercare nei fenomeni culturali del nostro “villaggio a-centrato” i fatti umani per scoprirne i significati; averli sempre presenti per far sì che l’immenso reticolato di fili del nostro “labirinto globale” possa sempre comunicare e scambiare anima, comunanza e vicinanza, pur se distanti.

Il nostro “villaggio a-cefalo” offre estraneità e certezza, allo stesso tempo.  È più che un’immagine analogica, più che una metafora della Vita: è un ossimoro, ossia è com’è la Vita stessa, che avvicina l’eguale al diverso, più <modi  di  essere nel mondo>.

 

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Si rintracciano gli “altri”, ma quegli <altri siamo anche noi>.

Siamo reciprocamente estranei, Io e l’Altro, e, parimenti, l’Altro ed Io siamo uguali nell’intima estraneità che condividiamo con noi stessi.

E siamo pur sempre reciprocamente estranei, Io e l’Altro, perché siamo diversi fisicamente, psicologicamente, culturalmente, ma <non di meno o di più>: siamo paritariamente diversi, con diversi <modi di essere nel mondo>, da scambiare, da comunicare.

“Non  siamo circondati né da marziani né da riproduzioni di noi stessi riuscite meno bene …  Vedere noi stessi come ci vedono gli altri può essere  rivelatore. Vedere gli altri condividere con noi la medesima natura è il minimo della decenza. Ma è dalla conquista assai più difficile di vedere noi stessi tra gli altri, come un esempio locale delle forme che la vita umana ha assunto localmente, un caso tra i casi, un mondo tra i mondi, che deriva quella apertura mentale senza la  quale l’oggettività’  è  autoincensamento e la tolleranza è mistificazione” (Clifford  Geertz, ibidem).

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Conclusioni.

E proprio per cominciare dal particolare, proviamo a fare un salto sforzandoci di smontare le aberrazioni persistenti del linguaggio comune.

Re – impariamo il linguaggio della reciprocità che, dietro categorie universali (Uomo), fagocitanti identità diverse, riconosce esistenza ai soggetti reali, agli “attori che compiono l’azione” (donne e uomini), riempiendoli di contenuto e di senso.

 

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Questo permetterà di arrestare l’arroganza del processo di “cancellazione della  memoria” che tende  a nullificare cose e persone, sì da operare il primo passo concreto per fronteggiare lo “sperdimento” sullo scenario del nostro labirintico villaggio globale.

 

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Più di un esempio di natura politico-sociologica potrebbe confortare la pericolosità di tale operazione, ma ritengo che il testo letterario, più contiguo al mio “modo di essere”, come specchio di un pensiero non slegato dall’emozione, possa offrire una metafora veritiera e assai calzante per ciò che vado pensando.

Calatevi nell’immagine del “Lettore” di Italo Calvino (Se una notte d’inverno un viaggiatore, p.287).

Dopo aver avviato, per gioco, la cancellazione delle cose intorno a sé, si rende conto che il gioco incontra “quelli della Sezione D”, figuri “con cappello e cappotto”, che vogliono distorcere, strumentalizzandole per scopi di potere, le finalità del suo gioco.

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Essi s’interpongono tra il Lettore e Franziska tanto da fargli dire: “Non vedo l’ora di far marcia indietro, di far tornare a esistere le cose  del mondo, a  una a una o  tutte insieme, contrapporre  la loro variegata  e tangibile  sostanza come un muro compatto contro i  loro disegni di vanificazione generale“.

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screenshot da Italo Calvino

 

Il nostro “Lettore” supera d’un balzo quel mondo che si  sta sgretolando. Sono l’uno di fronte all’altra, Lui, il Lettore e Franziska.

 

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Soltanto il riconoscersi vicendevole come due identità distinte, seppur  limitrofe, appare come la condizione essenziale per fermare il gioco distruttivo della memoria individuale e collettiva, operata da ogni micro/macro potere.

 

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Immagini free da Pixabay.com

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