“The Shape of Water”: è tra i diversi che si supera il non senso della parola “diversità”
“The Shape of Water”, dodici candidature agli Oscar, Leone d’oro al Festival di Venezia, arriva nelle trasparenze, nei turbamenti, nelle contraddittorietà degli animi umani, negli spazi in cui la superficie non è solida ma evanescente. L’acqua è irrefrenabile e travolgente. È il luogo in cui le barriere non tengono e gli argini rinnegano la logica della separazione.
“The Shape of Water” è un inno alla continuità che si fonda su un’essenza comune: l’appartenenza alla vita. Qualcosa che va oltre l’umanità stessa, in un’ottica secondo cui l’umanità non è condizione fisiologica bensì conquista, come emerge dalle parole o meglio dai gesti della protagonista Elisa “se vogliamo esserlo (uomini) comportiamoci da tali”. Ed è proprio Elisa, “una diversa”, a superare i limiti o piuttosto i pregiudizi della diversità. Una muta che riesce ad impostare, meglio di chiunque altro, il “dialogo” con “il mostro”. Ma non è un caso che sia lei a farlo. Si tratta, infatti, di una comunicazione non costruita sulle parole e, per quanto possa sembrare paradossale, è proprio in questo che risulta vincente. La parola è luogo di apertura all’altro da sé ma anche luogo dell’ambiguità e dell’incomprensione
Luogo in cui spesso, dietro al pretesto del dialogo, si attua la logica dell’affermazione dell’identità e nei casi più estremi quella della sopraffazione. Non si ha bisogno di parole per comprendersi e ne sono espressione Elisa e l’uomo-anfibio. Il loro è uno scambio propositivo ed altruista in cui, attraverso le uova sode di Elisa e la pratica della guarigione esercitata dal mostro, si prende e ci si dà. Si entra a passo lento nel mondo dell’altro, compartecipandone fino a raggiungere il picco nell’integrazione totale.
“The Shape of Water” è un film propositivo e a tratti provocatorio, nel ritratto di una realtà che sembrerebbe superata ma che purtroppo è ben lontana dall’esserlo, dove il colore della pelle di Zelda, l’omosessualità di Giles, la non voce di Elisa e persino la moralità di Dimitri contano. Ma è proprio tra i diversi che si supera il non senso della parola “diversità”. Sono, infatti, gli emarginati ad allearsi per una causa comune: la salvezza del mostro, determinando il lieto fine del film.
In un’acqua dai tratti dolci si consuma l’amore tra Elisa e l’uomo anfibio. Un amore non idealizzato ma carnale, che si realizza nell’atto sessuale tra corpi che sembrano impossibilitati a congiungersi. I contorni sono smussati, le tinte pastello, le musiche trascinanti. È un amore che non “stranisce” ma si contempla e a cui ci si appassiona.
Nelle acque ora vivono quelle due creature, negli abissi profondi si perdono, si amano, si vivono. In un’acqua mai uguale a se stessa i rumori delle società degli ineguali si spengono e si accendono le dolci sonorità dell’amore.