Recensione di “Ci chiamarono tutti Alda” al Roma Fringe Festival
Ci chiamarono tutti Alda
Coup de theatre (Latina)
Di Fabio Appetito
Regia di Marco Guadagno
Monologo: ci chiamarono tutti Alda è un testo dunque che l’intenzione, prima di tutto, di rimettere al centro la poesia. La poesia scritta ma anche quella vissuta, scontata, maltrattata, tediata e spesso buttata nel dimenticatoio del quotidiano. La protagonista del monologo non è strettamente Alda Merini, o meglio, non soltanto: a essere protagonista sono tutte le donne.
Uno spettacolo in cui l’attrice alterna momenti di lucidità ad attimi di follia; la follia è riscontrabile già dall’abbigliamento: i piedi non sono entrambi coperti bensì uno è scalzo e l’altro no.
L’alternanza conduce a momenti di immensa poesia ad altri di disperazione, riso e angoscia sono i tratti salienti della malattia di Alda Merini: schizofrenia ebefrenica.
L’amore disperato, vero ed onesto caratterizza l’intera messa in scena e la sua vita. Un amore che l’ha condotta in manicomio ed un altro che l’ha risollevata dalla crudezza umana.
“I ti amo sono delle coltellate infette da cui non esce che bile.”
Ma è anche vero che “la bellezza ci dilania e ci ricorda di quanto siamo soli nel guardarla.”
La bellezza spaventa, fa sperare e la speranza a volte conduce ad ulteriore follia, soprattutto quando si è ricoverati in manicomio da 7 anni e il vuoto pervade tutto ciò che sta intorno.
Non solo il vuoto bensì anche l’indifferenza umana è presente in manicomio: “ci strofinano le parti intime come se non fossimo più donne” ed i preti praticano il loro lavoro, consistente in una messa a settimana, e vanno via senza nessuna compassione e comprensione.
La speranza, attraverso i versi, l’amore, la poesia ed i sogni, si manifesta, tuttavia, anche nei luoghi e nei momenti più bui e quindi Alda si chiede e attraverso la risposta alla domanda si dà nuova vita:
“E se doveste perdere tutto cosa vi resterebbe? Rispondete come me, vi resterebbe ALDA MERINI”.