Ecce Roma: dal Romanzo di Saramago “Cecità” all’umana condizione.

Cecità. In un intricato e parossistico viaggio all’inferno, Saramago ci catapulta nel topos letterario della cecità: il contrappasso spietato.

Il Romanzo  del premio Nobel portoghese si lascia leggere e, ossimoro a parte, l’ho trovato illuminante e con una molteplicità di parallelismi all’umana condizione. Cecità, non solo perdita della vista per la quasi totalità dei personaggi, ma cecità come ottenebramento, ottusità, oscurità, limitatezza (per usare un aggettivo che non inizi per vocale posteriore).

In un’epoca imprecisata, in un luogo indefinito della terra, un uomo diventa cieco da un momento all’altro; dopo di lui, come un’epidemia, la cecità si diffonde tra tutti gli abitanti. L’epidemia svela nel corso del testo quella che è la parte più terribilmente autentica della natura umana: l’indifferenza. Non c’è motivazione che riesca a spiegare il fenomeno: nessuna malattia, nessuna contaminazione, è la cecità che diviene allegoria del mondo reale. Ci troviamo di fronte al paradosso di una solitudine moltiplicata, una concentrazione mostruosa di persone private – diremo della vista – sospesi tra la progressiva disgregazione della dimensione umana, affettiva e la brutale regressione ad una condizione primordiale. La stessa regressione che subiamo, e la subiamo perché ormai siamo caduti del vortice dell’abitudine, dell’indifferenza dei costumi, (l’éthos) quando in pieno giorno, in una strada del centro a Roma dove, tra i cassonetti ricolmi di rifiuti, qualche audace riesce a calarsi le braghe e dar libero sfogo alle proprie funzioni vitali.

È possibile chiedersi centinaia di volte quali siano i problemi di questa città: i trasporti, perennemente in ritardo quando va bene, fermi quando va male; le strade, piazza Venezia è una corsa sulle dune nel deserto; i monumenti antichi soffocano nel cemento e vengono distrutti nel silenzio di chi costruisce un misero garage. Eppure nella cecità dei molti, così come dei pochi (nei primi sono sempre compresi i secondi), questa città non smette mai di essere capace di adattarsi. In effetti ogni domanda sui problemi della nostra città trova identica risposta: Roma è melliflua, dolce e sinuosa, come il Tevere che lo attraversa. Non è capace di respingere…si adatta senza guardare, né sperare (non ha, d’altronde, religione). In parallelo, i ciechi del nostro romanzo: subiscono e sopportano, qualsiasi cosa loro accada, sempre di più, capaci di digerire e di trasformarsi, si adattano a ogni circostanza pur di rimanere a galla ma almeno… Se non siamo capaci di vivere globalmente come persone, facciamo di tutto per non vivere globalmente come animali.

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