Intervista al regista Giovanni Battista Origo: il suo cortometraggio”Gong!” in concorso al MarteLive

Giovanni Battista Origo: uno dei protagonisti della Biennale MarteLive, nella sezione cinema. Il suo cortometraggio
“Gong!” è arrivato tra gli otto finalisti.

  • Buonasera Giovanni. “Gong!” è uno dei tuoi ultimi cortometraggi, in concorso durante la Biennale MarteLive. Quello che caratterizza l’opera è che è interamente in bianco e nero. Un ritorno al passato che, tuttavia, sa di innovazione. Come nasce la sua ideazione?

Si, a “Gong!” sono seguiti altri due cortometraggi, Condominium, distribuito l’anno scorso, e Maria – a chent’annos, che verrà presentato a Cortinametraggio 2020 a fine marzo.

La prima è necessità, quella di raccontare una situazione che venisse in qualche modo astratta da un contesto ordinario al fine di diventare qualcosa di iperrealista; è come se i tre protagonisti si muovessero all’interno di una sorta di ambiente “altro”, non distaccato dalla realtà, ma che rimanesse comunque in una sfera separata dal hic et nunc della narrazione. Poi, molto più semplicemente, mi è sempre piaciuto il bianco e nero in sé e questo corto si prestava particolarmente all’esperimento.

  • Il corto è dedicato a Karl Valentin e si distingue per i dialoghi, al limite del surreale, tra i protagonisti. Vi è un messaggio celato o tutto è chiaramente visibile?

Karl Valentin raccontava la propria società attraverso l’esasperazione, al limite del surreale, della classe piccolo borghese dei primi decenni del ‘900. Erano attacchi frontali spietati, profetici ed esilaranti. Dopo quasi un secolo, a mio parere, l’assetto sociale e culturale ha visto dei radicali stravolgimenti, ma le dinamiche rimangono le stesse, cambiando forse solo gli attori sociali.

Luigi ed Elsa, i protagonisti del corto, fanno parte di quello strato sociale e culturale che oggi definiremmo radical chic, cioè quelle donne e quegli uomini di media borghesia intellettuale che oggi, a distanza di decenni, vivono in una specie di bolla impermeabile, perdendo, a mio parere, quasi totalmente il contatto con il proprio contemporaneo e con le dinamiche che lo contraddistinguono. Non voglio certamente generalizzare, ma è come se, a cinquant’anni dalle rivoluzioni politiche e sociali del nostro paese, si sia sviluppata una sorta di incoscienza e di scollamento da parte di una certa classe nei confronti della società. Karl Valentin raccontava la propria società attraverso l’esasperazione, al limite del surreale, della classe piccolo borghese dei primi decenni del ‘900. Erano attacchi frontali spietati, profetici ed esilaranti. Così, ispirandomi a quell’esperienza, i protagonisti di “Gong!” si trovano coinvolti in un vortice di parole fine a sé stesse, esasperando la propria autoreferenzialità, scoprendosi sempre meno intelligenti e sempre più inutili.

  • Hai scelto di utilizzare il piano – sequenza. Una scelta molto complessa ma sicuramente la bravura degli attori ha contribuito alla sua buona riuscita. Ricordiamo che gli interpreti sono Antonio Catania e Benedetta Buccellato (nel corto i due coniugi) e Marco Bonadei (il figlio Jimmy). Come sei giunto alla loro scelta quali protagonisti di Gong!?

Benedetta Buccellato (mia madre) e Antonio Catania sono due attori a mio parere straordinari, capaci, grazie alla loro enorme esperienza a teatro, di reggere con i tempi giusti il piano sequenza. Stessa cosa vale per Marco Bonadei, che ho avuto modo negli anni di vederlo in scena in numerosi spettacoli e che, sin dalle prime letture del corto, ha capito la quintessenza di Jimmy; figlio di famiglia trentenne che definiremmo, anche bonariamente, l’archetipo del coglione.

  • Qual è la tua personale visione del cinema e ci sono registi ai quali ti ispiri per le tue opere?

Vachatngov diceva che l’arte non deve mai essere separata dal popolo: o con il popolo o contro di esso. Ma mai al di fuori. Io credo che il cinema debba avere un forte carattere popolare, non può e non deve diventare una forma d’arte elitaria. Il cinema dovrebbe avere la missione di porre domande, unire o dividere il pubblico, fare ridere, piangere ma mai porsi su un trespolo a dettar verità per pochi. Il carattere esclusivo e quindi escludente dell’arte porta secondo me a una frattura culturale e sociale che rischia di generare forme di diffidenza e ignoranza nei confronti di un qualcosa che dovrebbe invece esser patrimonio di tutti. Credo che da italiani non dovremmo mai dimenticare l’esperienza della grande commedia: Mario Monicelli, Ettore Scola, Dino Risi ecc. Essendo italiano mi piace l’idea di potermi ispirare a loro, anche se chiaramente i riferimenti sono davvero tanti. Amo il modo di scrivere di Woody Allen, come il lavoro sugli attori di registi come Martin Scorsese e della “nuova Hollywood”, mi piacciono i grandi film che hanno costituito la “radiografia” dal dopo guerra ad oggi come Coppola, Cimino e tutta quella generazione. Tra i contemporanei mi piacciono molto David O. Russel, Gus Van Sant… insomma, niente di nuovo, ecco.

  • Hai già in progetto una nuova opera?

Stiamo lavorando in questo periodo a un documentario e a un docu-film che ci auguriamo vedano la luce in tempi relativamente brevi. Poi, insieme a Elettra Raffaela Melucci, stiamo lavorando alla stesura del nostro lungometraggio.

  • Un sogno “impossibile”?

Credo che di impossibile in realtà ci sia poco quando credi profondamente nei tuoi mezzi e in te stes… Ma vi risparmio un po’ di retorica: Il mio sogno è dirigere una bella epopea in costume che duri un sacco di ore e dal titolo molto altisonante, tipo “Marco Aurelio – l’imperatore filosofo”, che di filosofo però abbia ben poco: centomila comparse, battute retoriche, budget mostruoso, orde di barbari, file di gente al cinema, sei mesi di programmazione in tutto il mondo e centodiciotto nomination agli oscar.

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