“Non parlare con la bocca piena” di Chiara Francini: semplicemente un romanzo che fa bene.
Levità, uso una parola un po’ desueta per descrivere quello che mi ha trasmesso questo libro.
Già in occasione della recensione di “Magari domani resto” di Lorenzo Marone, riflettevo su quanto il mondo, forse, necessiti nel suo quotidiano di leggerezza, intesa come capacità di descrivere tematiche importanti senza alcun macigno, con delicatezza. È quello che fa anche Chiara Francini, già ottima attrice, divenuta una piacevole scoperta letteraria.
L’attrice fiorentina snocciola temi importanti come l’adozione da parte di una coppia omossessuale, la crisi esistenziale che inizia ad attanagliare l’essere umano passata la soglia degli “enta”, i desideri, il lutto…contornando il tutto da una sottile e permeante ironia, vera cifra stilistica del romanzo, e che, d’altronde, contraddistingue la sua persona e la sua caratura di scrittrice (non di certo improvvisata, aggiungerei, visto che la Francini è laureata in italianistica e i suoi studi universitari emergono – eccome! – nell’utilizzo forbito e sempre puntuale della lingua italiana). E se strappare un sorriso è già di per sé complesso quando si può contare sui gesti, sulla mimica, sul timing della battuta, ancora più difficile diviene quando il divertimento deve correre sul filo del rapporto intimo tra il lettore e il romanzo. E la scrittrice fiorentina ci riesce benissimo.
I suoi personaggi prendono vita negli occhi di chi legge, man mano che si prosegue nel racconto, con lunghe sequenze descrittive che fanno trapelare il grande amore che Chiara prova per i suoi personaggi. E Chiara è anche la protagonista del romanzo, una novella Peter Pan, che sovverte il consueto stereotipo del prototipo di genere maschile, affetto dall’omonima sindrome, trentenne e immaturo, riottoso nell’assumersi le responsabilità. Stavolta la Peter Pan è in gonnella.
Ma c’è un po’ di Chiara in tutti noi, perché, in fondo, chi di noi non è alla ricerca del fuoco della prima passione, della favola, della protezione dell’originario nucleo familiare o, ancora, della magia del Natale, che la protagonista cerca di far rivivere tutto l’anno tenendo fermo e ostinato nella sua cameretta l’albero di Natale. Forse proprio quella parte, che trafuga Galatine da una borsa o con caparbietà non rinuncia ai sogni, è quella che l’autrice ci invita a preservare. Perché si bisogna crescere, ma non troppo per evitare che ciò che di bello realmente abbiamo in noi, vada perduto nei meandri della realtà. Che non sconfigge Chiara e il suo mondo, fatto di personaggi colorati e calorosi, neppure quando irrompe con tutta la prepotenza nella vita della giovane donna.
Un episodio drammatico diviene occasione per far rivivere l’Amore, nella sua accezione più pura ed eterea di Bene. Amore per chi si ama che non ha sesso né colore, per la cultura ed il teatro, per il profumo di caffè, per le immancabili Galatine, per i gatti e, e per l’amore genitoriale, che non ha altro Dio se non la cura e la protezione.
Spero di non aver involontariamente “spoilerato”, ma è di certo un libro che contiene tutto, che fa bene e che lascia una scia di tenerezza sfogliando l’ultima pagina, che non è realmente la fine perché Chiara, le Supreme, Giancarlo e Angelo e tutti gli altri vengono via con il lettore ricordandogli che la vita non è altro che un teatro, in cui se si è abbastanza scaltri si decide di sedersi accanto a chi si ama, di scartare una Galatina, mentre si aspetta che salga il caffè, scambiando due chiacchiere e godendosi lo spettacolo che si spera ricco di battute e dialoghi ironici e intelligenti. Perché la felicità risiede solo nel calore avvolgente delle piccole cose quotidiane.
Annarita Lardaro