Sulle ali del calcio: “Carlo Mazzone”

Fra le colline di Ascoli ed il cielo di Roma che si specchia sul Tevere nascono storie che hanno il sapore di calcio ma con il retrogusto della vita, quella vissuta con intensità e passione.

Quando la romanità incontra la passione, la grinta si sposa con l’etica dello sport e l’insegnamento del gioco diviene metafora della vita spunta fuori il nome di Carlo Mazzone; ma non a caso, basta sfogliare il ben impaginato libro delle fotografie dello sport per notare un omone alto, senza peli sulla lingua e dal forte accento romano, un accento che il tecnico testaccino non ha mai voluto nascondere o celare dietro terminologie sociologiche o vezzi linguistici che non fanno parte della storia, ma che sono entrati a gamba tesa nell’era del calcisticamente corretto, quella 2.0 che a noi cultori della tradizione garban poco.

Sor Carletto o Sor Magara vive ad Ascoli, sua città adottiva che non lo ha mai dimenticato, ma porta sempre nel cuore i colori di una Roma primaverile che specchiandosi nel Tevere riflette sui suoi guai e la sua bellezza.

Maestosa, sublime, unica, nonostante i detrattori che la abitano, di nascosto la amino, ma provenendo da altre parti, la bistrattano, svalutandola sempre per compararla ai luoghi natii. Carletto non si è mai tirato indietro quando si è trattato di difenderla, se lo ricordano bene bresciani, romani e bergamaschi quando dopo il pareggio del suo Brescia con l’Atalanta, senza timore e con una incoscienza fiera e coraggiosa si diresse sotto la curva bergamasca a sfogare la sua rabbia ed il suo orgoglio capitolino. Infatti successivamente l’allenatore romano ammise che non sopportava il fatto che fossero state tirate in ballo le due componenti a lui più care: la famiglia e la città di Roma.

Carletto rappresenta un elemento anticonformista, se ne frega come direbbe lui stesso e va avanti a testa alta. Nella sua Roma riuscì a recuperare il talento di Giannini reinventandolo nei suoi schemi di gioco e rimettendo in evidenza la sua importanza dentro e fuori del campo. Una stima corrisposta che creò una sinergia romanista e romana che i tifosi del sud ancora oggi non dimenticano.

Alla stessa maniera il mister di Testaccio valorizzò e rivalorizzò Baggio al Brescia in un momento nel quale più nessuno credeva nel divin codino, fuoriclasse, una persona troppo brava sul terreno di gioco e nella vita di tutti i giorni per essere apprezzata da molti addetti ai lavori e da personaggi della carta stampata, che forse troppo avevano da imparare dal suo comportamento. Ma questo è uno schema collaudato, quando non ci si può più difendere, si attacca anche disordinatamente.

Sia il principe Giannini che il codino extraterrestre hanno riconosciuto a Mazzone un valore simbolico che va oltre schemi, tattiche e tecnica: la capacità di tirare fuori dal calciatore uomo le migliori risorse e preziosità in grado di renderlo un uomo calciatore. Calciatori veri e non calciattori, come molti di quelli attuali fissati con i tatuaggi e le pettinature modaiole, incapaci di controllarsi e di rispettare talvolta il valore del silenzio. Varie volte Mazzone ricollocò al posto loro giornalisti come Enrico Varriale che lo provocavano sul personale e lo dileggiavano per la sua semplicità testaccina. E lo fece con un misto di genuinità ed ironia, perché queste due caratteristiche hanno incrementato il suo valore aggiunto e la sua caparbietà.

Un bagaglio psicologico importante arricchisce il personaggio Mazzone, quello di una paternità adottiva che lo ha portato nel tempo a instaurare rapporti empatici ed affettivi con i suoi giocatori, sempre però mantenendo la giusta distanza, quella dell’esempio e della virtù che non possono essere corrotti dalla modalità di sentirsi sullo stesso piano. Ne uscirebbe svilito il maestro ed i discepoli trasformerebbero il timore reverenziale e la volontà di apprendere in un’amicizia superficiale.

Tornando ai due campioni vecchie maniere Baggio e Giannini entrambi si fecero applicare la clausola che nel caso se ne fosse andato sor Carletto rispettivamente a Brescia e a Napoli (breve parentesi di Giannini post Roma) avrebbero  fatto fagotto anche loro. Un bel tributo non c’è che dire. Totti fu fatto esordire in serie A da Boskov, ma chi seppe educarlo, levigarlo e scolpirlo come un figlio e come un uomo, fu proprio Mazzone. Quando si chiede al biondo di Porta Metronia quale sia il suo tecnico favorito di sempre, lui risponde senza ombra di dubbio Mazzone.

795 panchine per Carletto che non è voluto arrivare ad 800 perché lo stesso ama l’imperfezione e l’imprecisione dei numeri dispari; dietro l’aria un po’ bonaria ed un po’ scherzosa, tipica del vecchio romano, si cela un cuore grande così, mezzo giallo e mezzo rosso. Lucio Dalla nella sua fase bolognese gli dedicò attento al lupo, quasi che gli spartiti scritti a quattro mani con Ron prevedessero che in un futuro “futuribile”  sarebbero stati trasportati da un vento che profumava di romanità.

Una carriera dignitosa fu quella  da giocatore, ma ben più prestigiosa fu quella di guida e bussola degli 11 in campo: dal ’68 al ’75 ad Ascoli, restituendo prestigio e fama ad una bella cittadina nel cuore dell’Italia piena di bellezza. Dopo aver portato i bianconeri marchigiani dalla C alla A , raggiunge l’obiettivo salvezza e si merita sul campo con gli onori delle armi il passaggio sulla prima grande piazza: Firenze. Dei tifosi esigenti ed il calore cittadino lo stimolano e così con i viola vince la coppa italo-inglese e si classifica fra il ’76 ed il ’77 al terzo posto. Un girovagare per l’Italia lo condusse anche a Catanzaro, dove lanciò Claudio Ranieri, alimentando un fuoco di appartenenza capitale, nel quale i due, giocatore ed allenatore, declinarono in modi differenti e in mondi diversi il concetto di romanità. A Bologna Carletto rilanciò Signori come marcatore di razza sancendone il rinascimento calcistico, minimo comun denominatore con Baggio e Giannini, ed anche Guardiola a Brescia si meravigliò di come allenatore e uomo si coalizzassero all’interno della stessa persona nel trasmettere valori forti ed ideali reali, e molto più concreti di romanticismi utopici.

Carlo parlava con le famiglie dei giocatori, svezzava i più giovani, curava le ferite dei più anziani, trasferiva il suo amore per la vita e la famiglia anche fra i 22 delle sue compagini.

Fra le colline di Ascoli ed il Tevere che riflette le gioie e i dolori capitali, c’è ancora chi sogna ad occhi aperti, felice delle cose semplici, soddisfatto di aver assolto ad una missione antropologica e pedagogica. Perché se è vero che il pallone è rotondo, altrettanto vero si palesa che, talvolta, è quadrato nei valori. Perché persone come il Magara ci fanno volare sulle ali dello sport.

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