Van Gogh in mostra a Palazzo Bonaparte a Roma fino al 26 marzo 2023

Van Gogh
Non dirò nulla di nuovo né di non già battuto e pertanto sin da subito, evitandovi la pena di dovermi leggere fino in fondo, vi dirò che la mostra di Van Gogh a Palazzo Bonaparte non può essere persa.
La pretesa di comprendere l’arte e spiegarla è un atto di presunzione che è bene lasciare ai critici. Ai profani vorrei raccontare non il tocco del pennello, di cui ne capisco poco o niente, ma il deflagrarsi in crescendo della torbida sensazione di malinconia che avvolge la mostra.
Se andassimo oltre: oltre quella strabordante produttività artistica che in soli dieci anni, dal 1881 a 1890, condusse al completamento di oltre ottocento tele, oltre le ottocento lettere che scrisse al fratello minore Theo, oltre il genio artistico, non resterebbe che un uomo solo con i suoi fantasmi.
La coda rattrappita del mattino, di curiosi e amatori, avanza lentamente nel percorso espositivo dal filo conduttore cronologico e che fa riferimento ai periodi e ai luoghi dove il pittore visse.
Se una mostra non fosse solo una mera rappresentazione dell’espressione artistica ma divenisse uno spazio di autoriflessione che inviti la persone a pensare al proprio modo di agire e di stare al mondo? A creare un atteggiamento critico, che consenta loro di comprendere se stessi attraverso quello che è realmente essenziale?
In una delle sue stagioni artistiche Van Gogh porta al centro dell’arte soggetti tutt’altro che accademicamente convenzionali. Conosce la fame, l’austerità dei lavoro nei campi, la povertà, la miseria di intere famiglie e tipi umani variegati che trovano nei suoi dipinti una eterna identità.
L’apice di questo mondo patetico lo ritroviamo nei “I mangiatori di Patate“, compendio della sua prima fase creativa.
Nel caso di questo dipinto – scrive Vincent al fratello Theo – mi sono sforzato di dare a chi guarda l’idea che queste persone, hanno rivoltato la terra con le stesse mani con le quali prendono il cibo dalla ciotola. Nessuno spazio a interpretazioni romantiche e idealizzate.
Vincent era un uomo che aveva un gran bisogno di dare e ricevere amore, un desiderio talmente forte da rasentare spesso un’ossessione, una sensibilità fuori dal comune che non riusciva a gestire oscillando tra momenti di frustrazione e labili momenti di pace.
Sono un uomo passionale, incline a fare cose piuttosto insensate di cui mi pento un po’.
Ma se è vero come credo che è solo dal tormento che si può generare, Van Gogh, suo malgrado, me ne dà conferma.
L’eccentricità della sua personalità è forse l’aspetto che più mi ha colpita e sul quale si è maggiormente dibattuto. Credo, anche, che quello che a noi oggi possa sembrare un genio folle, nasconda invece una amara e profonda sofferenza. Era un uomo solo.
E se questa solitudine fosse stata compresa? Se questo allontanamento dal mondo si fosse assottigliato?
Ho letto, non so più dove, una frase che avrei voluto fosse mia ma non lo è.
In ogni uomo esiste un angolo ove posa, in modo confuso o maniacalmente ordinato, tutti i ricordi e le emozioni intense di cui è sostanza. Ed è lì che si nasconde per viverle o per far tacere chi è.
Van Gogh visse e morì miseramente, ebbe in vita più delusioni che successi ma non si arrese mai.
Appena morto la leggenda s’impadronisce della vita, nella generale sbadata dimenticanza che coloro che ora lo celebrano lo avevano lasciato impazzire e morire di solitudine.