“Il signore gentile” di Lino Bordin: recensione del romanzo.

Il signore gentile

Autore: Lino Bordin

Titolo: Il signore gentile

Pagine: 320

Prezzo: 16,00 €

Casa Editrice: Sandro Teti Editore

https://sandrotetieditore.it/project/lino-bordinil-signore-gentile/

 “Il signore gentile” di Lino Bordin, edito da Sandro Teti Editore, non è semplicemente un libro ma un racconto di viaggio su una terra ricca di contraddizioni: l’Africa.

L’opera consente di conoscere non solo le difficili condizioni di vita del continente, caratterizzato da contrasti interni, ma, anche, le dinamiche sottostanti al lavoro dell’autore, spesso sconosciute ai più.

“Il signore gentile”, attraverso la scrittura diretta di Lino Bordin, membro dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati dal 1980 al 2008, ci racconta la vita di un uomo, oggi settantenne, e della sua fede negli esseri umani contraddistinta da un’ingenuità latente che lo rende, nel suo narrare episodi di vita ormai trascorsi, vivo e concreto.

Lino, appena laureato, trova lavoro all’estero, prima a Bruxelles nella Commissione europea e successivamente a Lussemburgo, nel Parlamento europeo. Ma la vita nella città sembra stargli stretta e incomincia a maturare l’idea di fornire un aiuto tangibile trasferendosi nel Sud – Est asiatico, in cui sta avvenendo l’esodo vietnamita, gestito dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. Tuttavia, il sud – est asiatico rimarrà solo un desiderio giacché Lino verrà spedito in Africa, a Belet Weyne, in “un villaggio sperduto nella boscaglia semideserta della Somalia, ai confini con l’Etiopia”, dove circa un milione e duecentomila etiopi si sono rifugiati.

La Somalia accoglie Lino, al suo arrivo, sotto un sole rovente accecandolo con la sua sporcizia e il suo brutto odore: il desiderio di ritornare in Europa emerge in lui immediatamente ma decide di attendere alcune settimane. Rimane in Africa per 20 anni. L’autore, tuttavia, non si trasferisce immediatamente nel villaggio di Belet Weyne ma gli viene affidata la gestione del settore alimentare per tutti i profughi del Paese.

La capitale diviene la sua prima destinazione di arrivo.

“I miei pensieri vagavano liberamente nella squallida notte africana senza nessuna magia”.

Lino Bordin non edulcora le sue parole e non rende, al lettore, gradevole ciò che in realtà non lo è ma fornisce frammenti di “realtà” in cui la povertà, i riti e le difficoltà vengono raccontate in ogni sfaccettatura. Tuttavia, nel suo narrare, rende ancora più intenso il rapporto vissuto con l’Africa: le gemme di bellezza si nascondono nelle pieghe più oscure.

Nel 1980, l’anno in cui l’autore giunge nel Paese, la Somalia è governata dal dittatore Siad Barre. Le libertà civili sono represse; la corruzione, le torture e le uccisioni arbitrarie rendono il territorio dominato da profonde disparità sociali e dalla povertà.  La guerra persa con l’Etiopia per la riconquista dell’Ogaden, in cui la maggioranza della popolazione è di origine somala, intensifica ancora più la drammatica situazione, con l’arrivo dei profughi residenti nell’Ogaden in Somalia.

Lino ci racconta il divario sussistente tra la comunità dei bianchi e la popolazione locale: rapporti di sottomissione in cui anche il sesso con i domestici diventa per il datore di lavoro un diritto da reclamare.

Un disparità incommensurabile, resa evidente, anche, dalla vita condotta da parte degli stranieri: cene, feste, vita mondana e sesso. Quest’ultimo elemento viene spesso evidenziato nel libro.

La povertà sussistente tra la popolazione locale e i rifugiati conduce ad un’eterna lotta tra poveri, in cui il confine tra ciò che è giusto e ciò che è errato è labile.

Lino Bordin si trasferisce, successivamente, nel villaggio di Belet Weyne.

Dopo alcuni anni il desiderio di rientrare in Europa si fa sempre più incessante ma il trasferimento non avverrà mai, a causa di dinamiche interne che osteggeranno il suo ritorno.

Dopo la Somalia il viaggio di Lino continuerà nella Repubblica democratica del Congo, ex Zaire: qui si occuperà di circa trentamila profughi.

La vita in frontiera è dura, Lino resiste nonostante il desiderio di “quiete” e di una missione in una sede meno difficile.

“Il tempo passava. La foresta diventava sempre più difficile da sopportare. Guardavo la vegetazione lussureggiante, le cime degli alberi, il cielo. Ero solo.”

Roma oggi accoglie il suo bisogno di “casa”.

“E ancora noi, che ci troviamo a vivere in condizioni spesso durissime, riflettendo sulle numerose contraddizioni che ci portiamo appresso senza magari capire realmente dove stiamo andando.”

Lino Bordin

Nato a Pianiga, in provincia di Venezia, il 27 maggio 1948, si è laureato in Scienze politiche all’Università di Padova. Dal 1980 al 2008 ha lavorato per l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. I punti salienti della sua carriera professionale sono stati la sua collaborazione all’indipendenza della Namibia e alla democratizzazione del Sudafrica, cooperando direttamente con Nelson Mandela. Ha partecipato come responsabile ai programmi di assistenza ai milioni di profughi ruandesi fuggiti dopo il genocidio perpetrato in Rwanda, trovandosi implicato nella conseguente guerra del Congo. È stato responsabile per quattro anni dei rifugiati kurdi iraniani e turchi basati nel Nord dell’Iraq ai tempi di Saddam Hussein. Dall’Africa all’Asia, ha avuto l’occasione di confrontarsi con le innumerevoli componenti culturali delle popolazioni di cui si è occupato.

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