Intervista allo scrittore Andrea Malagola: il wwoof come esperienza di vita!

“Di un’estate infinita (e di altre stagioni più o meno belle della mia vita)” è il titolo del romanzo d’esordio di Andrea Malagola, edito da Terre Sommerse, in cui il protagonista, è un trentaquattrenne con una laurea in Scienze Politiche che si è rivelata inutile, e che lavora come operatore di un call center nella periferia milanese. Posto di fronte un bivio, decide improvvisamente di mettersi in gioco e presa un’aspettativa dal lavoro, partirà senza una meta precisa pronto a scoprire finalmente il mondo intorno a sé, fino a poco prima “nascosto” dalla nebbia che avvolge la vita frenetica di città.

“Andrea Malagola è nato a Cernusco sul Naviglio (Milano) trentacinque anni fa. Fin da bambino ha nutrito un profondo interesse per la lettura e la scrittura. Nella facoltà di Scienze Politiche dove si è laureato con una tesi sulle origini delle Brigate Rosse – ha scoperto la passione per una politica “dal basso” e autorganizzata, e verso i temi sociali più in generale. Successivamente ha svolto molti lavori in giro per l’Italia, fino a quando non ha trovato la mia gabbia definitiva con un contratto a tempo indeterminato come impiegato di call center. Dopo pochi anni sono sorti in lui dei propositi di evasione, messi in pratica più o meno con profitto e con spirito di avventura, in Italia come all’estero.”

  • Buonasera Andrea. Il tuo primo romanzo, Di un’estate infinita (e di altre stagioni più o meno belle della vita), è stato pubblicato da poco ed essendo autobiografico, ti chiedo: cosa ti ha spinto a mettere su carta la tua esperienza?

Mi è sempre piaciuto scrivere, ma prima di questo libro qualcosa mi ha sempre impedito di intraprendere un lavoro organico, serio, “completo”, di medio-lungo periodo. Forse la pigrizia, la paura di non farcela, o chissà cos’altro. Con questo libro invece qualcosa è cambiato. Stavolta avevo la motivazione giusta: mettere nero su bianco un’esperienza per certi versi enorme (sei mesi vissuti quasi fossero sei anni). Provare a restituire dignità a quanto vissuto. Trovare le parole migliori per farlo, pur consapevole che esisterà sempre uno scarto tra la realtà vera e propria e la sua rappresentazione su carta. Alla vita stanno strette le pagine di un libro, perché è tremendamente più complessa e più scomoda della sua narrazione. Anche nei tentativi migliori alla fine un po’ straripa dalle righe scritte, proprio perché non può essere contenuta. Anche se per sei mesi ho vissuto la meravigliosa illusione che le cose non stessero proprio così.

  • Puoi spiegare ai lettori cosa sono le wwoof e come è possibile partecipare a questo tipo di volontariato?

Il wwoof è un’associazione che mette in contatto aspiranti viaggiatori e meravigliosi posti in campagna (fattorie ed ecovillaggi) che cercano aiuto pratico oltre a uno scambio sociale e culturale. Basta andare sul sito Internet e tesserarsi al costo di circa 25 euro (in modo da essere coperti dal punto di vista assicurativo in caso di infortuni). A quel punto il viaggiatore può scegliere, tra una miriade di possibilità sparse in tutta Italia e nel mondo, il posto che più lo affascina, prendere contatti con chi lo abita e raggiungerlo. In cambio di circa cinque ore al giorno di aiuto in campagna vengono offerti vitto e alloggio. È comunque una dimensione sociale, solidale, lontana dalle logiche del lavoro salariato come lo conosciamo. Ed è forse questo l’aspetto che mi ha affascinato di più.

Intendiamoci: il wwoof non è certo la rivoluzione. È semplicemente un’esperienza, originale e interessante.

  • Nel romanzo descrivi la situazione lavorativa dei call center come opprimente. Riscontri questo anche all’interno dell’intera società in cui vivi?

Sì: secondo me la vita dentro a un’azienda non è che il riflesso di quella che scorre fuori. I rapporti sociali e di potere che esistono dentro a un ufficio rispecchiano e riproducono quelli che esistono fuori dal lavoro. Viviamo costantemente in un grande supermercato a cielo aperto, dove i rapporti sociali sono inevitabilmente regolati dall’economia. Ci muoviamo in modo quasi compulsivo tra questi immensi scaffali (neanche troppo invisibili) per comprare le merci che noi stessi abbiamo prodotto. Senza più avere il tempo né la voglia di guardare negli occhi gli altri consumatori – produttori. Poco male, comunque: anche a guardarli, quegli occhi spenti, ci vedremmo solo vuoto e alienazione, al massimo competizione. In campagna, invece, almeno ci ho visto riflessi dei paesaggi meravigliosi. Quegli occhi parlavano.

  • Nel libro il protagonista, alias tu, non vota. È una decisione che mantieni tutt’oggi?

Secondo me votare o non votare non è questione così strategica: non è che scegliere di farlo o di non farlo cambi realmente le cose. Per ipotesi, anche se una volta dovesse accadere che la maggioranza delle persone si astenesse, ciò non significa che automaticamente cadrebbero dal cielo il comunismo e l’anarchia. Credo però di aver dimostrato, nel libro, che neanche votare sia molto utile: in un contesto dove persino coi referendum (per esempio sul finanziamento pubblico dei partiti e sull’articolo 18) la volontà popolare viene in seguito tradita e calpestata! Di fronte a tutto questo, ovviamente io non possiedo né soluzioni né scelte giuste né ricette. So solo che, personalmente, preferisco impegnarmi nel quotidiano, ogni giorno, piuttosto che limitarmi a mettermi diligentemente in fila al seggio una volta ogni tre anni. Mi sentirei a disagio, ecco, non fa per me.

  • La città viene da te demonizzata. Non credi sia possibile trovare una propria dimensione anche all’interno dell’agglomerato cittadino?

Dunque: se è vero che le città possono diventare quasi invivibili, è anche vero che, come accennavo prima, la campagna e il wwoof non sono la rivoluzione né la soluzione. Sono semplicemente scelte più a misura d’uomo, più sostenibili, più armoniose, meno snervanti. Detto ciò, credo che, soprattutto in certi momenti, sia possibile trovare una propria dimensione anche all’interno dell’agglomerato cittadino: per esempio passeggiandovi mano nella mano con un/a ragazzo/a che si ama, giocandovi a pallone nelle strade con l’imprudenza tipica dei bambini, oppure ridisegnandone l’urbanistica nei momenti di rivolta. Con i muri che diventano enormi lavagne su cui scrivere le proprie idee, con le strade che diventano sentieri presso cui avventurarsi insieme a dei complici appena conosciuti. Con i cartelli stradali che per qualche ora perdono la loro funzione abituale e diventano protagonisti di una barricata, ad esempio. Ecco, in questi casi e in molti altri, secondo me, è possibile sentirsi davvero parte di una città e viverla. Insieme.

  • Emerge una visione quasi anti – sistema. Pensi che senza nessun tipo di Stato si possa vivere meglio o al contrario non si rischia l’esatto opposto?

È difficile rispondere a questa domanda. Come dicevo prima non ho certezze né ricette. Penso che invece chi ha la certezza, un po’ fatalista, che l’essere umano sia per natura cattivo, per forza di cose non potrà mai concepire un mondo senza Stati e senza frontiere.

  • E ora cosa farai?

Lascio il mio lavoro a tempo indeterminato e riparto. Magari verso posti nuovi. Tra l’altro diverse persone mi hanno già chiesto di scrivere un seguito…

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