Intervista all’attrice Micol Damilano: dal 10 febbraio in scena con “Love’s Kamikaze”

Micol Damilano

Andrà in scena al Teatro Tor Bella Monaca di Roma dal 10 al 12 febbraio lo spettacolo “Love’s Kamikaze” di Mario Moretti.

La drammaturgia racconta la straziante storia d’amore tra un’israeliana e un palestinese a Tel Aviv, “risucchiati” da un conflitto  ancora irrisolto nonostante siano trascorsi più di settant’anni.

Due sono gli interpreti: Micol Damilano e Claudio Contartese.

Abbiamo intervistato Micol Damilano.

  • Micol la ringrazio per questa intervista. Dal 10 al 12 febbraio andrà in scena al Teatro Tor bella Monaca lo spettacolo “Love’s Kamikaze” in cui lei è una delle interpreti principali. In un periodo artistico così complicato ricalcare le assi di un palcoscenico che sensazione e pensieri fa scaturire?

Grazie a Lei per l’interesse verso di me e lo spettacolo.

È innegabile che poter finalmente tornare sul palco è emozionante. Le difficoltà  legate alla pandemia, purtroppo, non si possono dire concluse: all’abituale apprensione per la buona riuscita della pièce si aggiunge quella legata ai tamponi che, in caso di positività, rischiano di vanificare il lavoro di tutto l’entourage un attimo prima di salire sul palco. Questa eventualità, affatto remota, è scoraggiante; costringe attori, registi e impresari a delle scelte e delle valutazioni che limitano l’artisticità. Ad oggi, per esempio, portare in scena compagnie numerose è tremendamente rischioso, pochi possono permetterselo. Resiste la gioia dell’essere sul palco, il divertimento e la commozione dell’interpretare e del raccontare al pubblico qualcosa che reputiamo di valore, ma non si può negare che la condizione in cui ci troviamo sia demoralizzante. 

  • Nella visione dello spettacolo quali sono le sfaccettature del personaggio che dovrebbe constatare lo spettatore?

Naomi Rabìa è una giovane donna ebrea piena di energia e di gioia. Cresciuta da genitori intellettuali e di sinistra è estremamente idealista, per certi versi ingenua. Ama Abdel, nonostante le difficoltà, in modo sincero, allegro, a volte travolgente; questo forte sentimento nasce e si nutre anche del suo desiderio di ribellione verso i genitori e la società. È una ragazza estremamente ottimista, forse anche perché, a differenza del suo innamorato, ha sempre vissuto in quella ‘bolla’ di agio che è Tel Aviv; vicina alla guerra, ma non abbastanza per assaporarne davvero la tragedia, percepita quasi esclusivamente tramite le azioni terroristiche dei Palestinesi. Segni particolari: ha quattro sorelle maggiori alle quali è difficile nascondere il proprio stato d’animo, non ama il riso in bianco, che trova insapore, e il suo gioco preferito da bambina era ‘campana’.

  • Claudio Contartese è il suo partner nella messinscena. Quanto è fondamentale per un attore la relazione con l’altro?

Indubbiamente essenziale, in qualsiasi opera teatrale, ma in questa occasione in modo particolare. Interpretare due innamorati porta gli attori su una linea sottile sulla quale è necessario stare in equilibrio: da un lato l’intesa scenica fatta di sguardi, baci e carezze che deve risultare credibile e intensa agli occhi dello spettatore e, dall’altro, il limite del rispetto per la persona che si ha davanti che non è davvero un tuo innamorato, ma un collega. La partitura della nostra intesa è fatta di gesti selezionati e studiati insieme alla regista. Deve necessariamente crearsi grande fiducia perché è una questione di abbandono del proprio corpo nelle mani di qualcuno che non sempre conosci a fondo. Io e Claudio, nello specifico, ci conoscevamo di vista, ma nulla di più e, in sole due settimane, abbiamo dovuto costruire qualcosa che normalmente richiede mesi di lavoro. Io sono stata netta nelle mie richieste e nell’esprimere fin dove fossi in grado di spingermi e Claudio ha accolto, ascoltato e mi ha aiutata ad entrare in rapporto con lui e con il suo corpo gradualmente, senza forzature. Se il risultato desiderato sia stato raggiunto ce lo dirà il pubblico guardandoci innamorare, sognare e disperare insieme.

  • La pièce racconta la straziante relazione d’amore tra un’israeliana e un palestinese, un rapporto sofferto in cui la “Storia” gioca un ruolo fondamentale. Crede che l’amore possa sopravvivere alle tempeste e mantenere la sua purezza e integrità?

Domanda molto difficile. La verità è che non lo so, l’amore si infrange quotidianamente per molto meno. A volte è interessato, a volte meschino, le nostre menti sono maggiormente manipolabili dai pensieri avversi di quanto noi stessi si voglia ammettere. Io sono decisamente più cinica e disillusa di Naomi, credo che la purezza sia un concetto che non appartiene al genere umano, almeno quella che si intende in termini divini e assoluti. Esistono la trasparenza, l’etica, l’onestà, ma ognuno di noi nasconde un lato oscuro che vanifica il concetto stesso di purezza. Può anche darsi ch’io mi sbagli e che, proprio nel mezzo della tempesta, per suo effetto inverso, l’amore possa assurgere alla purezza propria solo del neonato. Sono supposizioni, cui né Naomi né Abdel danno una vera risposta, chi vedrà lo spettacolo assisterà ad azioni da cui potrà trarre delle conclusioni in un senso o nell’altro, ma son certa che non saranno univoche.

  • Si sente spesso sui media parlare del conflitto israeliano – palestinese ma riuscire a farsi un’opinione concreta è complicato. Nello studio del personaggio quale considerazione ha fatto? Crede che una risoluzione sia ancora possibile?

Parto dalla fine della Sua domanda: sento parlare di questo conflitto, distante da noi nella sua concretezza, ma presente nelle discussioni dell’opinione pubblica, fin da ragazzina. Ho indossato la Kefiah durante l’adolescenza, quando per molti di noi era un simbolo di appartenenza politica decisamente superficiale e non conoscevamo il suo reale significato. Quando l’ho capito l’ho tolta. Non perché non condividessi la causa Palestinese, ma perché l’argomento è troppo complesso per prendere una parte in modo assoluto. Non so se si possa raggiungere una risoluzione, se quest’ultima possa essere conquistata con mezzi pacifici o bellici e, anche una volta conseguita, in termini politici e nazionali, quanto tempo ci vorrà perché si rispecchi nel sentimento della popolazione civile e di due culture che si sonoscontrate per così tanto tempo. Per lo studio del personaggio ho tentato di immergermi nelle parole di Mario Moretti, autore del testo, cercando di capire cosa lui desiderasse farci comprendere. Credo che si tratti principalmente di un’interrogazione, le tracce della verità e della colpa si perdono in mille sfaccettature. Ciò che, per me, è emerso è che l’unica  verità appartiene al sentimento che lega i due protagonisti; al loro ragionare con ardore, scontrandosi continuamente, senza giungere ad un punto d’accordo. Quello che desiderano è comunicare al mondo che apparteniamo tutti ad un’unica grande famiglia: il genere umano.

  • Lo spettacolo è, anche, un mezzo per riflettere sulla diversità di opinioni e culture. I punti di vista, nella società contemporanea, si intersecano spesso e a volte è difficile scoprire il positivo nello “scontro – incontro”. Da artista e da donna le è capitato di non scoprire questo lato positivo?

Dividerei il concetto di scontro da quello di incontro. Nell’incontro ho sempre trovato lati positivi, anche quando lo scontro appartiene all’incontrarsi. Nello scontro, fine a se stesso, si è ciechi e sordi, quando le due parti gridano l’una sull’altra, senza percepirsi davvero se non nelle proprie parole digrignate, allora non può accadere nulla di positivo. Dal momento che la Sua domanda recita ‘da artista e da donna’ mi viene in mente un mio personale trascorso: ho avuto la possibilità di vivere in Egitto per qualche mese per girare una serie televisiva legata al ramadan del 2016. Qui ho avuto modo di sperimentare sulla pelle il difficile rapporto uomo – donna che contraddistingue in modo particolare le culture arabe (non che noi occidentali si sia esenti, sottolineerei). Spesso si è trattato di uno scontro senza vincitori: io rimanevo nella mia posizione considerata di dovuta sottomissione e loro nella loro convinzione. Altre volte ho avuto modo di confrontarmi, di spiegarmi e di comprendere. Ho scoperto che non sempre gli atteggiamenti che noi condanniamo nei confronti delle donne scaturiscono da sentimenti malevoli e ho fatto scoprire che l’estremo desiderio di protezione nei confronti di qualcuno che consideri debole può risultare estremamente svilente.

  • Quale secondo lei è il futuro dell’arte e del teatro?

Eccoci giunti al tasto dolente. Dare risposte sarebbe speculazione. Il teatro vive una forte crisi da molto tempo, c’è chi pensa che gli attori saranno sostituiti dai robot, chi pensa che il teatro abbia un futuro solo abbracciando le richieste di puro intrattenimento del mercato e abbandonando l’intellettualismo. C’è chi pensa che il teatro non abbia futuro affatto. Io sento una tale necessità di fare e vedere teatro che non posso immaginare un mondo senza. Certo gli avvenimenti degli ultimi anni hanno abituato le persone al distacco e all’isolamento e ciò che più contraddistingue il teatro è proprio l’incontro dal vivo; qualcosa di unico che accade tutte le sere e tutte le sere si modifica. Se di questa presenza e di questa unicità il pubblico dovesse non sentir più la necessità certo il teatro non avrebbe futuro. Si trasformerebbe in serate live in streaming, in opere digitali, in qualcosa d’altro. Non meglio o peggio, ma altro. Si prosegue a tentoni, al buio, ci si pone domane e si fanno delle scelte, dove tutto questo ci porterà non è dato saperlo.

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1 thought on “Intervista all’attrice Micol Damilano: dal 10 febbraio in scena con “Love’s Kamikaze”

  1. Perspicaci annotazioni da parte di una giovane e preparata attrice: grazie!

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