Venezia 77 – “Mila” di Christos Nikou: recensione del film nella sezione “Orizzonti” della Biennale Cinema 2020.

Mila

Mila (Mele)

Regia:
Christos Nikou
Produzione:
Boo productions (Iraklis Mavroeidis, Angelo Venetis, Nikos Smpiliris, Aris Dagios, Christos Nikou), Lava Films (Mariusz Wlodarski), Perfo Production (Ales Pavlin, Andrej Stritof)
Durata:
90’
Lingua:
Greco
Paesi:
Grecia, Polonia, Slovenia
Interpreti:
Aris Servetalis, Sofia Georgovasili, Anna Kalaitzidou, Argyris Bakirtzis
Sceneggiatura:
Christos Nikou, Stavros Raptis
Fotografia:
Bartosz Swiniarski
Montaggio:
Giorgos Zafeiris
Scenografia:
E Birba
Costumi:
Dimitra Liakoura
Musica:
The Boy
Suono:
Leandros Ntounis, Saso Kalan, Tom Lemajic, Kostas Koutelidakis

Una delle opere della sezione Orizzonti della 77° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia è “Mila” del regista Christos Nikou.

Il lungometraggio accoglie lo spettatore con la visione di alcuni frame, dettagli fotografici di una casa, per poi addentrarlo nella vita del suo abitante: un uomo, Aris (Aris Servetalis), che picchia ripetutamente la testa sul muro.

L’uomo, successivamente, esce dall’abitazione, prende un autobus e si addormenta; l’autista lo sveglia al capolinea ma Aris sembra non ricordare più la sua identità e il motivo per cui si trova sul mezzo di trasporto, è privo dei documenti che possano consentire la sua identificazione.

Lo spettatore viene a conoscenza, molto lentamente, della situazione che il mondo intero sta affrontando: una pandemia, che suscita un’improvvisa amnesia, ha colpito la popolazione.

Aris viene condotto in ospedale, fotografato per consentire la sua identificazione per opera di parenti e amici e ricoverato per la cura: una terapia che attraverso degli esercizi mentali cerca di ristabilire la memoria, con esiti inconcludenti.

L’uomo ha solo due possibilità: o continuare la degenza in ospedale e sperare in una guarigione improvvisa oppure ricominciare una nuova vita attraverso il programma “Nuova identità”. Aris accetta quest’ultima opzione.

La fotografia (Bartosz Swiniarski) del lungometraggio è fredda, asettica, la telecamera segue la nuova vita del protagonista in modo “quasi automatico” e l’inquadratura è ristretta con l’utilizzo del formato 4:3 (un riferimento alle foto polaroid), così come meccanici sono le azioni di Aris che, nella sua nuova casa, ogni giorno, riceve una cassetta con i “compiti” da seguire.

L’uomo deve, infatti, ricrearsi una propria identità e per fare questo deve necessariamente vivere esperienze differenti (andare in bici, avere una relazione sessuale, guidare una macchina, assistere un uomo morente) che possano diventare una fotografia da inserire nell’album della sua nuova esistenza.

Lungo il corso del film, tuttavia, qualcosa appare allo spettatore “stridente” e suscita inquietudine: tutto ciò che Aris compie è davvero troppo “automatico” e alcuni dettagli fanno intravedere una “falsità” celata.

Aris conosce Anna (Sofia Georgovasili) che, come lui, si trova nel programma per la nuova identità; sarà lei, con i suoi comportamenti, a suscitare nel protagonista un cambiamento e un’accettazione.

Il lungometraggio si chiama “Mila” ovvero “Mela” giacché questo è il frutto preferito del protagonista, un cibo a cui è disposto a rinunciare quando apprende che facilita la memoria. Perché l’uomo ha il timore che il ricordo della sua vita precedente possa riemergere?

Ottima l’interpretazione del protagonista. La storia scorre lentamente e spesso, durante la visione, appare un limite ma al suo termine si comprenderà quanto quella lentezza nasconda un fermento e la necessità di un oblio.

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