Europa e migranti, perché è importante ripartire dalla Libia

È la fine del febbraio 2011, dopo 40 anni di dittatura, la popolazione libica si ribella a Muammar Gheddafi, che risponde con una repressione brutale. Tra il 2010 e il 2011 si verificano le prime agitazioni e proteste in altri paesi nordafricani, in particolare in Tunisia e Algeria fino in Siria, dove ancora oggi si combatte una sanguinosa guerra civile.

È l’esordio della Primavera Araba, espressione coniata dai media internazionali. Data l’instabilità del regime di Gheddafi, la comunità internazionale – la NATO sotto mandato del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite – decide di intervenire. Gli alleati conducono una campagna militare lampo bombardando la Libia, impiegando pochissimi soldati via terra e lasciando campo libero alle forze ribelli. Gheddafi viene catturato e ucciso nell’ottobre 2011. Diversamente dall’Iraq e dall’Afghanistan, in Libia le Nazioni Unite decidono di non utilizzare le forze di occupazione per guidare il periodo di transizione verso la nascita di un Governo stabile e democratico. Dopo la caduta del regime, infatti, a Tripoli regna un’apparente calma. Nel frattempo però nel Nord della Libia iniziano a guadagnare terreno i Fratelli musulmani, mentre le forze ribelli continuano a godere della disponibilità di armi fornite dagli alleati durante la guerra. Intanto nell’Est del paese viene costituito un corpo di coordinamento, il Consiglio Nazionale di Transizione (NTC), in mano a tecnocrati e membri per lo più dell’apparato militare del regime che avevano disertato il conflitto.

Tra alleanze tribali e alcuni membri dell’ ex regime che ambiscono al potere, le vere protagoniste del periodo di transizione, fino allo scoppio della prima guerra civile con le elezioni del 2012, sono le brigate armate in pieno contrasto con il NTC. Due anni più tardi, con il rafforzarsi nel paese della presenza jihadista, un ex generale fedele a Gheddafi Khalifah Aftar lancia un’offensiva militare contro gli islamisti fino al maggio del 2014, quando vengono indette nuove elezioni. Il voto, tra violenza e attentati, decreta la nascita di due coalizioni, che danno vita a due Governi: uno a Tobruk e l’altro a Tripoli, che continuano a contendersi il controllo del paese. Il primo è noto come Governo Provvisorio, che ha l’appoggio sia dell’Esercito Nazionale Libico guidato da Haftar, sia della Camera dei rappresentanti, corpo legislativo del paese. Il secondo invece è il Governo di Accordo Nazionale che gode del sostegno dell’ONU, guidato dal premier Fayez Al Sarraj, l’unico interlocutore dell’Europa sul tema dei flussi migratori e sui trafficanti di esseri umani. Nel 2015 però la Libia deve fare i conti anche con le milizie dello Stato Islamico, mentre sono sempre più frequenti attentati e omicidi anche di rappresentanti stranieri, tra i quali l’ambasciatore USA Christopher Stevens. Il suo assassinio spinge l’amministrazione americana a intervenire a Bengasi, Sirte e Derna controllate dall’IS. La cui presenza oggi sembra essere via via scemata.

Oggi perciò quando si parla di immigrazione non si può fare a meno di pensare alla Libia, principale punto di partenza delle imbarcazioni che trasportano donne, uomini e bambini, per lo più provenienti dall’Africa subsahariana, verso il vecchio continente. Molti attraversano il deserto prima di raggiungere la Libia, molti altri invece non riescono neppure ad arrivare per imbarcarsi, mentre tanti rimangono bloccati per mesi o anni nei centri di detenzione, senza assistenza medica, senza spazi e in condizioni igienico sanitarie critiche. E se non bastasse tra i migranti in attesa, c’è chi subisce ripetutamente violenza. La stessa che senza controllo e senza morale la Guardia costiera libica continua a perpetrare ai migranti in viaggio verso l’Europa.

Dalla morte di Gheddafi, la Libia resta lacerata al suo interno, incapace di raggiungere stabilità politica ed economica. Se non si conoscono le vicende che hanno travolto questo paese, non è possibile capire il fenomeno migratorio che, negli ultimi sette anni, è diventato sempre più complesso da gestire, con gravi ripercussioni per la stabilità dell’Europa. Dove si continua a parlare di emergenza per vizio politico e ideologico.

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