Intervista a Barbara Schiavulli, corrispondente di guerra: “il male ci parla e l’unico modo per sconfiggerlo è conoscerlo”.

Barbara Schiavulli

Barbara Schiavulli, corrispondente di guerra, scrittrice e vincitrice di numerosi premi nazionali ed internazionali per i suoi reportage nei teatri bellici. Ha collaborato con le migliori testate italiane (Il Sole 24 ore, L’Espresso, La Repubblica) e internazionali (BBC, Slownews), seguendo il conflitto arabo-israeliano, l’Afghanistan, lo Yemen, il Venezuela, l’Iraq e ogni altro scenario armato.

Attualmente scrive per Radio Bullets, un progetto che ha fondato insieme ad altri giornalisti per raccontare ciò che i media italiani non raccontano.

  • Partiamo dalle basi: chi è e che cosa fa un corrispondente di guerra?

Il corrispondente di guerra è un giornalista che segue i conflitti e i paesi in conflitto. Significa partire poco prima che esploda una guerra e seguirla per tutto il tempo della sua durata, andando nel paese che si segue ogni volta che è necessario. Significa raccontare la guerra in tutti i suoi aspetti, militare, politico, umano, economico. Si tratta di entrare in una storia e nella vita delle persone e cercare di raccontare quello che sta accadendo nel modo più onesto e competente possibile.

  • Da dove nasce la vocazione per il giornalismo di guerra?

Come qualsiasi passione nasce per tanti motivi, da una famiglia impegnata, dalla lettura, dalla voglia di denunciare le ingiustizie, dal voler raccontare la Storia, dal poterlo fare perché si ha il carattere giusto per farlo. Come tutti i lavori umanamente intensi e che impongono delle caratteristiche particolari, si scopre se si è adatti solo andandoci e trovandosi in mezzo a quello che accade.

  • Come ha mosso i primi passi in questo campo?

Dopo l’università mi sono trasferita in Israele e Palestina, che è forse il conflitto più conosciuto, seguito e studiato al mondo, avevo solo 24 anni ed è stata una grande scuola. Ho abitato a Gerusalemme quasi 4 anni, c’erano i migliori inviati e corrispondenti del mondo e quello è stato il posto dove tutto è iniziato. Per quanto sia specializzata in Medio Oriente e Centro Asia in realtà, negli ultimi 24 anni, sono andata in un sacco di posti dove credevo ci fosse una storia da raccontare. Nel mio caso e nel tempo, ho deciso che l’aspetto che per me era più importante coprire, erano le storie delle persone che la guerra la subivano, i soprusi, le violazioni, la violenza, il dolore dei civili. Entrare nella case delle persone e ascoltare le loro storie, diventare la loro voce per me è stato un grande privilegio.

  • Come si approccia un reportage di guerra? Quali strumenti sono, secondo lei, indispensabili per svolgere un buon lavoro?

Dipende da quello che si vuole raccontare. Bisogna avere una mente aperta, non giudicante, non avere pregiudizi e neanche un’impostazione politica troppo forte quando si lavora. Naturalmente ognuno di noi ha delle posizioni personali, ma quando si fa questo mestiere bisogna essere capaci di mantenere delle distanze, altrimenti si rischia di diventare opinionisti della guerra, non corrispondenti. Bisogna essere adattabili, rispettosi, onesti e aver studiato; fondamentale conoscere il posto, le tradizioni e anche tutto quello che ti può uccidere. Bisogna avere un buon fixer, che di solito sono giornalisti locali che hanno i contatti, un posto sicuro dove stare e una rete di persone affidabili. Bisogna parlare con chiunque. Se oggi vado in Afghanistan, che seguo da 19 anni e dove sarò andata una quarantina di volte, so facilmente cosa fare e con chi parlare. Se invece vado in un posto nuovo, per conoscere un paese ci sono dei punti di riferimento: scuole, ospedali, prigioni, condizione femminile, intellettuali e poveri, ti danno subito l’idea del paese in cui ti trovi.

  • È difficile rimanere obiettivi mentre si racconta una guerra?

La guerra è il fallimento della politica. Si resta obiettivi nel raccontare gli eventi, ma non si può esserlo nelle storie. Quando si vedono bambini fatti a pezzi, donne violentate, uomini torturati, quando si vede la forza, la sconfitta, eroi e carnefici, bisogna che le emozioni vengano trasmesse, e lo si fa solo se le si prova. Bisogna assorbire e ributtare fuori, sperando che quello che ti resta dentro, non ti segni troppo. La guerra è il male e io non vado a rischiare la pelle per fare una cronaca fredda di quello che accade, ma perché la gente conosca di cosa siamo capaci,  capisca che il male ci parla e che l’unico modo per sconfiggerlo è conoscerlo, che sappia che da qualche parte, stamattina, c’è un bambino che salterà su una mina e che non può essere una tragedia solo per la sua famiglia. Per cambiare le cose, però bisogna conoscerle, per questo gli Esteri sono importanti, anche se in Italia non hanno spazio nei media tradizionali perché sono costosi, faticosi e richiedono lavoro.

  • Lei collabora con numerose testate nazionali ed internazionali: ci sono differenze tra le richieste dei vari redattori, per esempio per quanto riguarda il focus del reportage o i fondi che le vengono forniti?

Devo dire che sto facendo di tutto per non lavorare più con i giornali italiani. Molti cercano di condurre la narrazione, magari senza essersi alzati da una scrivania, pagano poco, a volte con tempi biblici. Purtroppo l’opinione pubblica non legge più i giornali anche perché non sono più in grado di capire cosa vuole il lettore; sono più interessati ad un click o alla pubblicità. Per fortuna stanno uscendo nuove realtà online che stanno provando con estrema fatica a fare la differenza.

  • Mi parli del premio più significativo che le è stato conferito.

Beh, il Premio Luchetta fu il primo e quindi è stato quello che mi ha emozionata di più. Ma ogni premio che ho vinto è stato un onore perché vedevo che il mio lavoro veniva apprezzato, nonostante sia stata sempre da sola, senza un giornale alle spalle, senza protezione e a volte soldi, alla fine venivo riconosciuta da chi mi leggeva. Per questo dico sempre che non scrivo per un giornale, ma per chi mi legge.

  • Qual è stato il reportage che più la rappresenta come giornalista?

Uno dei più difficili è stato andare a Kandahar, roccaforte dei talebani e riuscirne tutta d’un pezzo. Ma anche raccontare i transessuali in Pakistan, per diversi anni, i peggiori, sono stata l’unica giornalista in Iraq e nonostante le pressioni, non ho mai mollato, dovevo raccontare la vita di quella gente che lottava per andare avanti ogni giorno quando magari a Baghdad c’erano 10 attentati al giorno. Le torture di Abu Ghreib. Il colpo di Stato ad Haiti. Non saprei scegliere.

  • Lei è anche scrittrice: scrivere dei libri è un modo per esorcizzare quanto ha vissuto sul campo o un modo parallelo di raccontare la guerra?

È un modo per continuare a raccontare andando oltre lo spazio limitato dei giornali. Molte storie meritano più tempo e parole diverse. Meritano che ci si rifletta sopra e che non si limitino a 80 righe. Nei miei libri ho sempre raccontato  le persone che ho incontrato, la loro forza, il loro coraggio, la loro umanità, la loro voglia di riscatto e l’importanza di essere riconosciuti. Non mi piacciono i numeri, preferisco i nomi.

  • Mi parli del progetto che sta seguendo in questo momento.

Radio Bullets è una testata giornalistica che si occupa di Esteri, di storie, di reportage, di notizie. Nasce dalla rabbia di un giorno in cui non potevo essere a Gaza perché non avevo abbastanza soldi per partire. I giornalisti freelance anticipano tutto e fino ad una decina di anni fa i giornali pagavano abbastanza da permetterci, lavorando molto, di fare bene. Poi con la crisi l’Italia ha scelto di fare meno, pagare meno, e abbassare il livello di qualità: la conseguenza è stata una catastrofe. Ora chi di noi riesce ancora a lavorare deve fare il trapezista per arrivare a fine mese. Così la rabbia, anche perché sono convinta della necessità che ha una società di sapere cosa accade nel mondo per capirlo e migliorarlo e non prendere la deriva estremista che ci sta travolgendo, mi ha fatto fondare con altre colleghe e colleghi, questo progetto giornalistico fatto di testi e podcast. Mi alzo ogni giorno alle 5 per mettere insieme un notiziario di 15 minuti con le notizie che non si trovano sui giornali italiani. Se 1000 persone contribuissero con 50 euro all’anno noi saremmo sostenibili, almeno per cominciare. Ma in Italia c’è ancora questa idea perfetta che l’informazione debba essere gratis. Non è possibile, se vuoi che sia attendibile, onesta, competente, lo so, sono parole che ripeto spesso, ma è come il sale e l’olio buono in cucina, va pagata e soprattutto sostenuta. Per ora abbiamo un piccolo zoccolo duro di sostenitori, ma ce ne servirebbero molti di più. Siamo una quindicina di persone, tutte specializzate, tutte sparse. Una redazione diffusa. Ci occupiamo di guerra, notizie, cinema, tecnologia, ma con una prospettiva internazionale, l’esatto contrario dei media tradizionali che guardano solo nel cortile di casa.

  • Secondo lei, la figura del giornalista è destinata a scomparire?

Con internet si pensa di avere accesso a tutto, che sia possibile capire cosa succeda sul mondo. Ma internet ha grandi pregi, ma anche molti difetti, c’è tutto e il contrario di tutto, soprattutto i giovani faticano a sviluppare un senso critico, per questo c’è bisogno di un giornalismo. È come andare dal medico, certo si può controllare su internet, ma se ti senti male, vai dal migliore medico possibile.

I giornalisti scompaiono solo nei regimi, virtualmente e fisicamente. Il giornalista è una garanzia per la società, è il cane da guardia del potere. In un mondo perfetto, sarebbe uno dei lavori più importanti di una paese, quello che fa domande, che critica, che scava, che rompe, la voce dei deboli. E questo non deve scomparire, ho molti amici e colleghi che subiscono minacce, che sono stati rapiti e uccisi, che nei loro paesi lottano per denunciare la corruzione, la violenza e per loro che bisogna continuare. Ogni buon pezzo che scriviamo li tiene in vita anche se non ci sono più. Poi ovviamente viviamo in un mondo guasto, dove ci sono giornali che istigano alla violenza, che leccano il sederi del potere, dove ci sono figli di e amanti di, ma questi non sono giornalisti. Tutti possono avere un tesserino, ma l’anima di un giornalista è tutta altra cosa e quella non scompare, bisogna solo imparare a trovarli.

Martina Seppi

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